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Sei fratelli

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VOTO: 6

Volemose bene

Marco, Guido, Leo, Luisa, Gaelle e Mattia hanno madri diverse, non sono tutti figli biologici dello stesso padre ma hanno un’unica vera figura paterna di riferimento: Manfredi Alicante. Quando quest’ultimo viene a mancare, si ritrovano per la prima volta tutti insieme nella casa paterna a Bordeaux, vivendo l’illusione di poter diventare una famiglia unita. Ma ormai ognuno di loro porta con sé una storia, un’identità e tornare indietro non sarà facile. È questo il quadretto familiare tutt’altro che allegro e idilliaco che Simone Godano ha voluto dipingere sulla tela dello schermo cinematografico con il suo nuovo film dal titolo Sei fratelli, distribuito da 01 Distribution a partire dal 1° maggio 2024.
Per la sua quarta fatica dietro la macchina da presa dopo Moglie e marito, Croce e delizia e Marilyn ha gli occhi neri, il regista capitolino ha scelto, prendendosi tutti i rischi del caso, di mettere mano a un tema da commedia classica all’italiana portando nelle sale l’ennesimo affresco umano idealmente orientato al passato che guarda a più riprese ai Parenti serpenti monicelliani come alle rivalità casalinghe di La famiglia di Ettore Scola, un po’ come hanno fatto prima di lui Gabriele Muccino e Francesco Lagi, rispettivamente con A casa tutti bene e Quasi Natale. Il tutto mixando toni, dinamiche e intenzioni, ma soprattutto prendendo le dedite distanze del caso, perché inutile quanto ingiusto sarebbe anche solo pensare a un confronto con pellicole e autori di quel calibro. Ecco allora che al di là del richiamo come ideale fonte d’ispirazione dalla quale attingere a piene mani non bisogna e non si deve andare. Godano dal canto suo e con la complicità in fase di scrittura di Luca Infascelli lo ha fatto ricorrendo all’immancabile reunion tra affetti che va a comporre un gruppo di famiglia in un interno destinato nella migliore delle ipotesi a ricucire gli strappi o nel peggiore ad implodere aumentando ulteriormente le distanze quel tanto da renderle una volta per tutte insanabili.
Alla visione di Sei fratelli l’ardua sentenza, ma una cosa è certa: mettere d’accordo tutti su come gestire un allevamento di ostriche ereditato da un padre che prima di morire lo ha trasformato in una utopistica coltivazione di perle, lasciando oltre ai “cocci” numerosi debiti e tantissimo altro da farsi perdonare, non sarà per niente facile. Questo perché come è facile immaginare gli Alicante, oltre ad essere una famiglia larghissima, è anche gelosa, risentita, a volte addirittura volubile e inconsistente tanto da rendere i singoli membri delle vere e proprie mine vaganti che insieme riflettono la società in cui viviamo. Il ché è terreno fertile e materia prima per alimentare una dramedy corale a sfondo casalingo che, come il modello d’oltreoceano o francese, cerca di fare coesistere registri agli antipodi da una parte e dall’altra la costante presenza in scena dell’ensemble chiamato a raccolta. Quest’ultimo è formato da una nutrita brigata (Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Gabriel Montesi, Valentina Bellè, Claire Romain, Mati Galey) che sia individualmente che in squadra funziona e riesce a trasferire agli spettatori una vasta gamma di personalità nelle quali potersi rispecchiare. Con e attraverso di loro e le dinamiche che si vengono a creare che scaturiscono le emozioni cangianti, i sorrisi e le lacrime, che si incontrano lungo la timeline. Ed è qui che si muove prima la scrittura e poi la sua trasposizione, tanto nella messa in scena quando nella performance del cast che va a comporre la famiglia sgangherata e disfunzionale protagonista, le cui discussioni, rappacificazioni, intese e ostilità sono al centro della pellicola.
Un magma che scorre nelle pieghe di un film che parla di tempo perduto, legami affettivi e di memoria e lo fa tingendosi di realismo che chiede naturalezza e improvvisazione agli attori coinvolti e una macchina da presa a mano che respira all’unisono con loro, non curandosi nemmeno dei tagli sull’asse per restituire il più possibile la verità del momento. Peccato solo per quegli accenti mucciniani che soprattutto nell’ultima parte alzano i decibel dei dialoghi e che stonano con l’approccio più contenuto voluto da Godano per gran parte della narrazione.

Francesco Del Grosso

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