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Challengers

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VOTO: 7

Solito triangolo amoroso, ma ben raccontato in una veste accurata e originale

E’ la finale di un torneo di tennis “challenger” a New York, ovvero un torneo minore che, tuttavia, permette al vincente di accedere ad una competizione nel circuito del cosiddetto “grand slam”, il più importante del mondo. I partecipanti non sono giocatori qualsiasi: da una parte c’è Art Donaldson (Mike Faist), ottimo tennista e con grandi successi alle spalle, ma in fase ormai calante, mentre dall’altro lato del campo c’è Patrick Zweig (Josh O’Connor), dalle grandi capacità sempre rimaste inespresse. Tali apparenti, grandi differenze, celano in realtà dei legami molto profondi, perché oltre ad essere amici fin dall’adolescenza, i due condividono anche la passione per la donna che siede in prima fila tra il pubblico, l’altera Tashi Duncan (Zendaya). Questa è stata a sua volta una promettente tennista, costretta ad interrompere la sua carriera a causa di un grave infortunio, e un tempo fidanzata di Patrick è ora moglie e allenatrice di Art. La complicata storia di questo triangolo amoroso, fatto di ambiguità, menzogne, litigi e sotterfugi, si dipana tra un set e l’altro scoprendo via via una faccenda che pare andare oltre il tennis, oltre la semplice contesa sportiva e oltre lo stesso scopo della partita cui assistiamo.
Luca Guadagnino, dopo il Leone d’Argento conquistato alla 79ª Mostra internazionale del cinema di Venezia con Bones and All (2022), conferma la sua vocazione internazionale firmando in terra americana Challengers, un film dalla storia non particolarmente originale, ma che rimane molto brillante nell’esecuzione. A rendere interessante la sceneggiatura d’esordio di Justin Kuritzkes, c’è infatti l’incalzante taglio registico che ben si adatta al tennis, lo sport fulcro dell’intera vicenda, e al continuo movimento della pallina sempre più veloce nel fare avanti e indietro per il campo su cui Patrick e Art paiono affrontarsi per lo “scontro finale”. Ecco che proprio qui emerge il divertente gioco di parole del titolo, perché i “challengers” sono i partecipanti ad un torneo “challenger”, ovviamente, ma significa anche “sfidanti” e quest’ultima è una parola che vale su molteplici livelli: come si ritrovano frequentemente a dire i protagonisti “qui non stiamo parlando solo di tennis, giusto?”. Gli ultimi tredici anni dei loro tormentati rapporti vengono narrati in una serie di “flashback”, spezzati da palle del “game”, cambi di campo e servizi brucianti e, a confondere inizialmente il pubblico, neanche raccontati nel giusto ordine cronologico. Si tratta invece di tanti sprazzi di vita, sorta di puzzle narrativo le cui tessere, una volta al loro posto, ci mostrano chiaro un quadro finale che, come detto, alla fine dei conti non spicca per originalità, se si fa eccezione per lo sfondo sul quale si svolgono i fatti. Coloro che in passato erano amici fraterni vengono divisi dalla rivalità per una donna egoista, crudele, che li usa a turno per i suoi ambiziosi scopi personali. Tashi è arrabbiata con il mondo, si considera depredata della gloria e del successo che ritiene le spettino di diritto e, senza alcuno scrupolo, non esita a fare leva sui caratteri dei due uomini della sua vita, rimanendo comunque frustrata nel dover godere di quello che è soltanto il riflesso delle conquiste altrui. La sua rigidità di coach va a braccetto con la severità con cui giudica entrambi: Patrick, per non aver mai avuto la capacità di maturare come uomo e tennista, sperperando il suo talento, Art per non avere il desiderio di inseguire vette più alte, desideroso com’è di godersi i soldi guadagnati e la sua famiglia, soprattutto l’amata figlia avuta da Tashi.
Il tutto narrato in modo viscerale, certamente, usando i toni sanguigni delle pulsioni umane (che a Guadagnino non sono nuove), fisiche come lo sono i furiosi scambi sotto rete, sottolineate spesso da una martellante colonna sonora elettronica che potrebbe non incontrare i gusti di tutti.
Per gli spettatori che hanno un minimo di esperienza in questo genere di storie, l’epilogo risulta piuttosto scontato ma ad ogni modo, pur con qualche lungaggine che si avverte soprattutto nella parte finale, si arriva a seguire piacevolmente un film attentamente confezionato.

Massimo Brigandì

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