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A casa tutti bene

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VOTO: 5

Nozze amare

La locandina di A casa tutti bene, la nuova fatica dietro la macchina da presa di Gabriele Muccino che segna il suo ritorno in Italia a otto anni di distanza da Baciami ancora dopo la lunga parentesi a stelle e strisce, è una vera e propria lettera d’intenti, o meglio quel genere di bigliettino da visita che introduce nel migliore dei modi l’interlocutore di turno. In tal senso, l’immagine scelta da 01 Distribution per accompagnare l’uscita nelle sale (con 500 copie) della pellicola il 14 febbraio, che mostra un selfie collettivo dell’intero cast sorridente ma con alle spalle un minaccioso nuvolone nero, infatti, riassume alla perfezione quanto andremo a vedere da lì a poco sul grande schermo.
L’undicesimo film del cineasta capitolino racconta la storia di una grande famiglia che si ritrova a festeggiare le Nozze d’Oro dei nonni sull’isola dove questi si sono trasferiti a vivere, ossia Ischia. Un’improvvisa mareggiata, però, blocca l’arrivo dei traghetti e fa saltare il rientro previsto in serata, costringendo tutti gli invitati a una convivenza forzata sull’isola. Una sosta, questa, che lascerà non pochi strascichi in tutti i presenti, costretti dagli eventi a fare i conti con loro stessi, con il proprio passato, con gelosie mai sopite, inquietudini, tradimenti, paure e anche improvvisi e inaspettati colpi di fulmine.
Insomma, come avrete ampiamente intuito dall’immagine che campeggia sulla locandina e dalle righe che vanno a comporre la sinossi, è di una famiglia, nello specifico decisamente allargata e disfunzionale, che si narra nella pellicola in questione. Ed è proprio questa, lontana dall’essere un accogliente e sicuro focolaio domestico dove trovare rifugio, a rappresentare il baricentro su e intorno alla quale ruotano il plot e le sue stratificazioni narrative, drammaturgiche e tematiche. Al contrario su di essa aleggiano nuvole per nulla rassicuranti che annunciano l’arrivo e l’abbattimento di una tempesta, di quelle capaci di spazzare via gioie e serenità. La villa che accoglie questo dramma casalingo dal retrogusto melò si tramuta ben presto, come era stato a suo tempo (con le giuste distante del caso) per Parenti serpenti, in una pentola a pressione destinata a implodere con tutto il suo carico al seguito di frustrazioni, rancori, non detti, mezze verità, disillusioni, ipocrisie e rabbie represse. La famiglia ritratta e incorniciata sul grande schermo dal cineasta romano, il cui tronco dell’albero genealogico è rappresentato da una madre che prova con tutte le forze a tenere insieme i pezzi (così come accaduto più e più volte in altri romanzi familiari in stile Tutto può succedere), vuole essere – riuscendoci solo in parte – uno spaccato più ampio, un paradigma della Società dei giorni nostri, simile metaforicamente parlando a un mosaico fatto di tanti vetri infranti dove lo spettatore può di volta in volta andarsi a specchiare.
Per farlo, l’autore passa per un affresco corale che va in scena quasi interamente un’unità spazio-temporale, attraverso un intreccio simultaneo di storie che confliggono sino a provocare una serie di cortocircuiti emozionali e fisici. Il tutto chiamando a raccolta vecchie e nuove conoscenze alle quali l’autore affida una galleria di personaggi dai profili, dai colori e dalle sfumature caratteriali differenti, ma alla lunga stereotipati. Purtroppo pochissimi funzionano veramente (in particolare il Riccardino interpretato da Gianmarco Tognazzi, omaggio riuscito al Bagini di Io la conoscevo bene, nei panni dei quali a suo tempo si era calato magnificamente Ugo Tognazzi) e questo mancato funzionamento degli assolo si riflette negativamente sull’orchestrazione. Problema atavico e a quanto pare irrisolto questo, con A casa tutti bene che ha nel DNA pregi e difetti del modo di Muccino di fare e concepire la Settima Arte. La scrittura resta il tallone d’Achille, in particolare quando si naviga in acque serene e la melassa sentimentale prende il sopravvento su tutto il resto. Scene come quella del palleggio notturno da una stanza da letto all’altra, oppure come la fuga d’amore di Isabella e Paolo al porto, dialoghi compresi, riflettono a pieno i suddetti limiti. Quando al contrario, l’alito di vento si trasforma in burrasca, il regista mostra il lato migliore del suo cinema, quello tragico e disperato di relazioni che una volta entrate in rotta di collisione vengono messe giocoforza in discussione per poi finire o rinascere dalle ceneri. In quei passaggi i decibel crescono a dismisura e la verità riesce finalmente a palesarsi sullo schermo, generando momenti riusciti e non artefatti, che però alla pari di déjà-vu risuonano nella mente dei conoscitori della filmografia muccinoiana come già visti.

Francesco Del Grosso

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