Caccia alla sposa!
I frutti migliori del cinema di genere 2.1 – ora che la decade volge al tramonto è possibile tracciare un sommario bilancio – sono spuntati dalla capacità di sintesi tra intrattenimento e spavento. Abbandonata per strada la paura tout court, ormai appartenente ad epoche differenti, la famigerata Blumhouse in primis, ma anche tanto aggressivo cinema più o meno indie, ha messo in pratica questo nuovo modus operandi, guardando ad un pubblico giovane e smaliziato in grado di fare la differenza a livello di incassi. Profeta di tale istanza si è rivelato, ad un livello qualitativamente superiore, Jordan Peele, autore di due opere (Scappa – Get Out, 2017 e Noi, 2019) capaci di intercettare precise istanze socio-politiche nonché fornire alla platea robuste dosi di divertimento affatto gratuito. Sulla medesima scia prova a muoversi anche questo Finché morte non ci separi (titolo originale Ready or Not, ben comprensibile al termine della visione), diretto dal duo composto dai rampanti Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet, giovani ma già esperti di certo tipo di cinema.
Concettualmente assai vicino al già citato Scappa – Get Out, oppure al sempiterno cult Society (1989) di Brian Yuzna, il lungometraggio in questione non omette affatto la propria natura squisitamente ludica, che viene anzi ribadita ad ogni sequenza attraverso una miscellanea di generi diversi spinti a velocità vertiginosa. Commedia, satira, thriller, horror e splatter. Nulla sfugge allo studiato sguardo di uno script – firmato da Guy Busick e Ryan Murphy – che rende la visione di Finché morte non ci separi se non esattamente originale comunque in tutto e per tutto gustosa. Un insieme arricchito da una vulgata anticapitalista magari sin troppo esplicita ma senza dubbio efficace, nonché capace di attirare su di sé le simpatie di quel resto del mondo impossibilitato ad un certo tenore di vita.
La vicenda vede la giovane ed attraente Grace sul punto di convolare a nozze, nell’antico castello di famiglia, con l’altrettanto belloccio Alex, rampollo di un stirpe, i Le Domas, arricchitasi nel ramo giochi da tavolo nel corso dei secoli. Attenzioni però alle tradizioni vigenti, che talvolta possono riservare sgradite sorprese. Infatti, immediatamente dopo il fatidico sì, Grace (ottimamente interpretata dalla volitiva neo scream queen e final girl Samara Weaving) viene obbligata a scegliere un gioco che si rivelerà ben presto cruento e “all’ultimo sangue”. Letteralmente. Inizia così una notte da incubo, una luna di miele decisamente anomala e imprevista.
Oltre ad un ritmo narrativo sempre elevato, con trovate visive fantasiose ed anche gradevolmente retrò in certi casi, funziona egregiamente la messa alla berlina di un modello di vita a dir poco conservatore che sta minando le fondamenta di una società in tutta evidenza malata alla radice. Coloro che affermano come l’alta borghesia sia sempre la prima responsabile di ogni deriva più o meno totalitaria troveranno in questo film pane per i loro acuminati denti. Un discorso portato saggiamente a livelli quasi parossistici dal duo registico, culminante nell’autentico bagno di sangue della seconda parte, coronato da un finale non inaspettato ma di certo capace di incistarsi nella memoria spettatoriale. Del resto la famiglia rimane tale sia nella buona che nella cattivissima sorte. Anche quando, come in questo caso, si auto-cannibalizza in senso non soltanto metaforico ma anche fisico.
Finché morte non ci separi – ben servito da un cast perfettamente in parte in cui ritroviamo con piacere una Andie MacDowell sempre molto bella e lontanissima dalle versioni “acqua e sapone” degli esordi giovanili – non sarà un’opera destinata ad entrare nella storia della Settima Arte; senza possedere la carica destabilizzante del già menzionato Jordan Peele riesce comunque a divertire senza sensi di colpa aggiungendo quel pizzico di riflessione in grado di nobilitare un genere (o generi, nello specifico) troppo spesso deriso e considerato”inferiore”. Che al contrario dimostra ancora segni di irresistibile vitalità, quando non si adagia su binari troppo prevedibili per compiacere un ipotetico pubblico di riferimento, in realtà sempre bisognoso di novità o rielaborazioni ben contestualizzate. Come nel caso di Finché morte non ci separi.
Daniele De Angelis