Ancora a proposito di “Noi”
Cosa significa girare un film di genere oggi? A tale, poderosa, questione fornisce una risposta l’imperdibile Noi, film di Jordan Peele uscito di recente nelle nostre sale.
Dopo il successo, con pubblico e critica curiosamente d’accordo tra loro, di Scappa – Get Out, come classicamente succede con la propria opera seconda Peele era atteso al varco. Noi è ora nei cinema: molti, tra i quali la nostra rivista, lo hanno apprezzato; altri hanno avuto riserve. Tutto legittimo e facente parte del gioco. Anche perché il compito principale di un’opera appartenente al cosiddetto genere non è (semplicemente) quello di spaventare o creare tensione; queste sono reazioni epidermiche, strettamente connesse con l’emozione di recarsi in sala ad ammirare un qualsivoglia film incasellabile in tale categoria. No, il lungometraggio di genere, in teoria, dovrebbe destabilizzare. Evadere dalla comfort zone nella quale è stato confinato dalle regole di mercato che modulano la maggioranza del cinema contemporaneo e portare, in senso metaforico s’intende, lo spettatore laddove non ha più difese. Jordan Peele lo aveva fatto con Scappa – Get Out e ci ha riprovato, entrambe le volte con successo, attraverso Noi (Us, il titolo originale. Ricordano qualcosa le due lettere, magari puntate?). Il velo d’ipocrisia dello status quo imperante cade, insomma, due volte. Nell’opera d’esordio viene affrontato l’argomento razziale. Non su uno, ma addirittura utilizzando due registri narrativi: il thriller tendente all’horror e la commedia. Si potrà discutere all’infinito se queste due tonalità riescano a fondersi armonicamente in Scappa – Get Out. Ma non è questo il punto. Il fulcro è il razzismo. Non però quello palese di parte degli elettori trumpiani ferocemente incazzati dall’aver “sopportato” due quadrienni di presidenza Obama. Bensì l’altra forma. Quella maggiormente infida poiché strisciante, dormiente della “buona borghesia” wasp che si vanta di aver votato proprio Obama alle elezioni. E che lo rifarebbe, se solo fosse possibile. Jordan Peele, in un thriller magnifico, emette un grido d’allarme: l’afroamericano tipo (della quale etnia lui fa parte) è ancora geneticamente portato alla sottomissione – l’ipnosi di cui è vittima il giovane Chris dalla madre psicologa della presunta fidanzata bianca – mentre i civilissimi, agiatissimi wasp usano i corpi dei neri, più “resistenti” da un punto di vista fisico, come possibilità di perpetuare le proprie esistenze minate da malattie e vecchiaia. Il genere parte per la tangente e non guarda in faccia nessuno. Il pubblico freme, si diverte ma viene anche portato alla riflessione mediante una fotografia del reale alquanto minacciosa. Convivenza impossibile, a parità totale di diritti, anche negli anni 2.1?
Peele lascia cadere la domanda nel vuoto sospeso di chi non vuol dare una risposta. Incassa un premio Oscar alla sceneggiatura e carta bianca per alzare ulteriormente il tiro. Cosa che, puntualmente, accade con Noi. Dove la questione razziale è già superata dall’introduzione narrativa preliminare. La famiglia afro protagonista è totalmente integrata nel benessere. Possiede una casa al mare dove trascorre le vacanze. Intrattiene rapporti assolutamente paritari con una famiglia bianca anch’essa appartenente alla borghesia benestante. Dividono la spiaggia senza problemi. Le rispettive moglie chiacchierano di facezie mentre gli uomini gigioneggiano a chi ce l’ha più grosso, metaforicamente parlando. Ma appunto la Metafora – quella con la maiuscola – arriva per vendicarsi. Si fanno vivi i doppelgänger. Copie esatte dell’umanità del mondo di sopra costrette a vivere nei tunnel. Sotto. Al pari di conigli d’allevamento. La spiegazione latita. Volutamente. Non importa se siano cloni, cavie da laboratorio create con qualche scopo preciso o via discorrendo. Loro sono noialtri e vogliono vivere le nostre vite. Rimpiazzandoci dopo l’eliminazione. Loro mirano a Noi, Noi ci specchiamo in Loro. E non si tratta di un gioco di società. Jordan Peele è un folle visionario oppure una mente lucida che analizza il presente? Buona la seconda, senza dubbio alcuno. Molti decenni dopo La notte dei morti di viventi di tale George A. Romero ci ritroviamo ancora una volta con una visione dell’umanità drasticamente divisa tra avvantaggiati e svantaggiati. Con i primi costretti ad aver paura dei secondi, armati di forbici. Guarda caso un’arma bianca che include sia nelle proprie apparenze fisiche che in senso lato il concetto stesso di divaricazione. In Noi il grido d’allarme diviene l’Urlo trasfigurato di Edvard Munch. Il mondo globalizzato, predicato dalla Società dello Spettacolo preconizzata anzitempo dal saggista Guy Debord e rifilato a noi attraverso gli ingannevoli medium televisivi e web, svela l’autentica realtà. La ribellione degli altri, quelli depredati dal colonialismo e sterilizzati dai vari sovranismi attualmente sulla cresta dell’onda politica nel mondo, potrebbe essere assai più vicina di ciò che si è portati a pensare. L’epilogo di Noi, che tanto sa di apocalittico, lascia a bocca aperta per coerenza ma non stupisce più di tanto.
Da un punto di vista cinematografico fioccano i parallelismi tra Noi ed altri home invasion, tipo Funny Games – nelle due versioni girate da Michael Haneke, Them, The Strangers ed il suo seguito e altri ancora. Come se un autore – diciamo le cose come stanno – del calibro di Jordan Peele potesse non aver visto – ed essersi vagamente ispirato – a tali pellicole del passato. La casa invasa nel corso di Noi è però un tantino più grande di una semplice abitazione domestica. Ed è per tale ragione che l’opera di Peele resta più a lungo sottopelle dopo la visione, seminando nell’animo angosce tutt’altro che facili da estinguere. Elementi tipici di un cinema che aspira alla grandezza senza declamarlo ai quattro venti. La potenza del cinema di genere, nei suoi esempi migliori, è sempre stata quella lì, in fondo. Sempre che al fondo ci sia una fine…
Daniele De Angelis