Nella società dei bianchi
Un film come Scappa – Get Out racconta cosa decisamente interessanti, anche da un punto di vista extra-diegetico. Ad esempio dimostra come, nell’ambito di certo cinema di genere dove più o meno tutto è già stato messo in scena, sia ancora perfettamente possibile la rielaborazione di stereotipi effettuata con grande intelligenza. Diamo dunque merito a Jordan Peele – celebre, negli Stati Uniti, attore comico e televisivo afroamericano nato da coppia mista (particolare importante) – di aver escogitato un brillante incrocio tra il classico Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967) e il cult Society di Brian Yuzna (1989), sia pur depurato della componente maggiormente splatter, più qualche altra ispirazione non troppo manifesta sparsa qua e là. Confezionando dunque un thriller sospeso tra brividi e ironia, con la determinante componente razziale a fare da sfondo tutt’altro che passivo.
Il prologo è già una dichiarazione d’intenti. Un ragazzo di colore si muove nottetempo in un elegante quartiere di periferia – notare il ribaltamento “fisico” rispetto alla consuetudine italiana: negli Stati Uniti i ghetti neri sono in città, mentre i famosi suburbs lindi e tutti uguali sono collocati fuori dalle metropoli cittadine – viene aggredito da sconosciuti e portato via in auto. Un crimine come tanti altri? Cambio di scena. Chris, ragazzo di colore, è fidanzato con la bella Rose, inequivocabilmente bianca. Idillio perfetto, con l’amore che pare scavalcare di slancio secoli e secoli di divisioni sociali. Arriva il fatidico momento della presentazione ai genitori di lei, coppia alto borghese con canonica villa al lago. Rassicurazioni di Rose a Chris sulle vedute anti-razziste dei suoi, accaniti sostenitori di Obama. Poi Chris tocca la cosa con mano, e i conti finiscono con il non tornare quasi da subito.
Rivelare i colpi di scena presenti in Scappa – Get Out significherebbe privare il pubblico del gusto di assistere ad un piccolo oggetto cinematografico di culto che innalza in modo sensibile la media delle produzioni la cui paternità va attribuita al “terribile” Jason Blum. La differenza sostanziale, rispetto ad altri lavori targati Blumhouse di qualità assai discutibile, è che stavolta i meccanismi narrativi – thriller, con parentesi fanta-horror e conseguente discesa in una realtà fantasiosa ma nemmeno troppo distopica – si muovono secondo idee ben chiare e seguendo un progetto assolutamente definito. Quello cioè di realizzare un lungometraggio cattivo che spazzi via in un sol colpo la teoria che vede l’America come culla del melting pot razziale nonché luogo di ospitalità per chiunque in mano ad una borghesia “illuminata”. Ci aveva già pensato, nella triste realtà, l’elezione di Donald Trump a smentire tale luogo comune; Scappa – Get Out non fa altro che ribadire il concetto e rigirare il dito nella piaga, ancorandosi alla perfezione ad un presente molto più che precario dal punto di vista della convivenza sociale. In aggiunta a ciò le due linee narrative presenti in Scappa – Get Out risultano in ottimo equilibrio, convergendo in un finale che ribalta beffardamente le convenzioni filmiche focalizzate sino a quel momento. Da un lato infatti Peele si dimostra, inscenando la più inquietante (ma molto reale…) discesa in una situazione da incubo per Chris, un abilissimo costruttore di palpabile tensione; dall’altra mitiga il tutto attraverso la figura dell’amico del ragazzo Rod, alle prese con sospetti, esternati anche alla polizia, sempre più fantasiosi e paranoici ma non troppo distanti dalla verità diegetica. In Scappa – Get Out, insomma, coesistono senza problemi di rigetto l’anima seria del film – per l’appunto l’aspetto delle differenze razziali, per l’occasione condotto a dimensioni consapevolmente iperboliche – e assieme la propria parodia, fatto questo capace di rendere il film estremamente godibile sequenza dopo sequenza, al netto di alcune esagerazioni di sceneggiatura facenti, ovviamente, piena parte del gioco.
Divertimento ai massimi livelli e cervello niente affatto in stand-by, dunque. Qualcuno pretende di più, da un’operazione che, con ogni probabilità, verrà al solito erroneamente etichettata dalla critica più intransigente come di serie, cinematografica, inferiore?
Daniele De Angelis