Tra gli Inuit dell’Arctic Circus Troupe
Tupiq vuol dire “tenda”, nella lingua degli Inuit. Mentre l’acronimo A.C.T. sta per Arctic Circus Troupe. Insomma, per farla breve, grazie alla diciottesima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia siamo riusciti a scoprire, proprio tra i giovani di questo piccolo popolo dell’Artico, autentici appassionati dell’arte circense!
Sarà anche l’amore che da sempre abbiamo per le terre dell’Estremo Nord e la sua rarefatta popolazione, amore testimoniato pure dalle sensazioni così forti destate in noi da altri documentari, vedi lo sconvolgente Arctic Spleen di Piergiorgio Casotti o il paesaggisticamente superbo Messaggi dalla fine del mondo dello svizzero Matteo Born; ad ogni modo persino questo corto così asciutto, semplice, diretto da Aibille Idiout e Michael Napatuq, pur con il limite di una brevità finanche eccessiva, qualche emozione ce l’ha lasciata.
Il termine “Eschimese” sta agli Inuit più o meno come “Lappone” sta al non meno fiero e coriaceo popolo Sami, rappresenta ovvero una distorsione importata da genti esterne e intesa, talvolta, in termini dispregiativi. I ragazzi di Tupiq A.C.T. du Nord continueremo pertanto a chiamarli Inuit. E soprattutto continueremo ad amarne il sogno innocente, etereo, di usare la magia del circo per far conoscere in giro per il mondo non tanto la loro bravura, quanto piuttosto le tradizioni e gli ancestrali canti che ne accompagnano, non a caso, le esibizioni. Oddio, in un festival che a livello di suggestioni circensi ha già offerto quelle davvero magiche di Parle moi, accanto alle forzature diegetiche in cima al trapezio de L’acrobate, i numeri un po’ arrangiati di giocoleria visti qui potrebbero apparire poca cosa. Ma il fatto che a eseguirli siano giovani dotati di quel sorriso, immersi con gli stivali sulla neve e posti di fronte a scorci di Natura artica da togliere il fiato, finisce per fare la differenza. E così si resta comunque incantati davanti al montaggio quasi distratto di poche inquadrature fisse, leste a catturare la gioia infantile di quei ragazzi incorniciati da cieli chiarissimi e da paesaggi innevati che si estendono a perdita d’occhio.
Stefano Coccia