Piccolo tango a Montreal
Un’opera come L’acrobate – visto alla diciottesima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia, nell’ambito della speciale sezione per adulti denominata After Hours – ha comunque il merito di porre una questione non da poco conto. Possono esistere ancora, a nuovo millennio ormai inoltrato, tabù da infrangere? Analizzato in questa chiave il lungometraggio diretto da Rodrigue Jean (il quale, per l’occasione, si firma come Rod Jean) potrebbe attirare un qualche interesse. A maggior ragione perché la storia di un’attrazione fisica del tutto incontrollabile riguarda, stavolta, due uomini. Mostrando, con dovizia di particolari, un intero campionario di sessualità priva di freni. La risposta fornita da Rodrigue Jean alla domanda se – beninteso tra due persone adulte consenzienti – ogni possibile esplorazione nel campo del rapporto sessuale sia da considerare lecita, è senza dubbio affermativa, come del resto più che giusto. Istanza che porta ad un’altra questione, quella se sia corretto mostrare, in un film intellettualmente lontano dal porno, pompini, pissing (meglio nota come pratica detta urofilia) e frustate a sangue solamente per attirare attenzione e, possibilmente, creare scandalo. Anche in questo caso, pur rimarcando la delicatezza della faccenda, si sarebbe tentati di rispondere affermativamente; a patto che tali sequenze siano da considerare pienamente funzionali all’economia narrativa. Purtroppo L’acrobate fallisce proprio su questo versante, ingenerando in chi guarda appunto il sospetto di un’opera programmata in gran parte per suscitare scalpore.
Quasi tutto, ne L’acrobate, risulta stantio, già visto. Va bene proporre una sorta di aggiornamento in chiave omosessuale del celeberrimo Ultimo tango a Parigi, ma sarebbe stato quantomai opportuno chiedersi se muoversi di nuovo sullo scivoloso crinale dell’inscindibile binomio Eros/Thanatos a distanza di quasi mezzo secolo dal quintessenziale capolavoro di Bernardo Bertolucci avrebbe avuto ancora una propria ragion d’essere. Tra l’altro senza traccia alcuna di lavoro introspettivo sui due personaggi. I quali s’incontrano casualmente, altrettanto casualmente hanno un rapporto sessuale di tipo orale, quindi vagano smarriti per una metropoli in palese decomposizione, interrogandosi per l’intera durata di un film fluviale (due ore e un quarto) sulla fatidica questione se il sesso è stato solo tale oppure ci può essere qualcosa di più oltre ad esso. Con esito scontato, trattandosi di dramma a tinte fosche permeato da un’atmosfera a dir poco funerea. Un insieme incorniciato in una Montreal invernale e livida, con una fotografia che ricorda molto da vicino il Crash (1996) di David Cronenberg, peraltro richiamato in maniera piuttosto esplicita anche dalla sequenza in cui Micha (il personaggio che fornisce il titolo al film) mostra al partner Christophe l’ampia cicatrice alla gamba conseguenza della frattura dopo una disastrosa caduta dal trapezio durante un esercizio. Palesemente in contumacia però i pregnanti simbolismi sottesi presenti nella magistrale opera tratta dal testo di James G. Ballard.
La cosiddetta trilogia sulla sessualità operata da Rodrigue Jean, già in opere precedenti quali Lost Song (2008) e Love in the Time of Civil War (2014), conosce con L’acrobate, duole dirlo, il vertice più basso dell’ipotetico triangolo. Un lungometraggio visibilmente ammantato di pretese autoriali, non giustificate però da un risultato finale che suona, se non completamente falso, a dir poco saccente e pretenzioso nel suo esistenzialismo nichilista sin troppo cerebrale, tanto da risultare del tutto vacuo. Se scandalo avrebbe dovuto essere, alla fine è stata la noia a prevalere su tutto.
Daniele De Angelis