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Nuestras Madres

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VOTO: 7.5

Amare e dolorose verità

Nuestras Madres di César Díaz «esplora la relazione madre-figlio perché credo che sia un tema molto profondo», ha dichiarato il regista nel video introduttivo alla visione, manifestando quanto l’argomento gli sia molto caro anche sul piano di porsi delle domande, oltre all’urgenza di raccontare la/e storia/e che affronta in questo film. Tutto si svolge nel contesto della guerra civile gualtemalteca (durata ben 36 anni), o meglio, «quello che successe dopo la guerra, le conseguenze e come si curano le ferite. Era importante parlare di tutte queste questioni perché credo che il Guatemala sia un Paese sconosciuto, che ciò che accade lì sia grave, che non se ne parli e che sia anche un esempio di ciò che avviene in molte parti del mondo». Questi presupposti del processo creativo del lungometraggio sono stati tutti rispettati e sono uno dei punti di forza dell’esordio dietro alla macchina da presa del regista guatemaltemaco. Effettivamente uno dei pregi della Settima Arte e, in generale, dell’Arte (tanto più di quella che sceglie di impastare le mani nella Storia) è di aprire finestre sul mondo (in questo il FCAAAL ci ha spesso sorpresi e giustamente il film è stato inserito nella sezione ‘Concorso Lungometraggi FINESTRE SUL MONDO’), su territori e situazioni che ignoriamo, a volta, anche perché desiderano che non sappiamo.
Siamo nel 2018. La prima immagine di Nuestras Madres è subito d’impatto: l’obiettivo della macchina da presa inquadra prima le ossa (marroni rinvenute all’interno di un terreno molto probabilmente contaminato) del braccio… un ragazzo sta ricostruendo le spoglie ritrovate per poi provare a conferire loro un nome. Si tratta di Ernesto (interpretato ottimamente da Armando Espitia), un giovane antropologo forense col compito di identificare i resti delle persone che sono scomparse (questa visione tornerà, quasi come una chiusura di un cerchio, alla fine, riservando ‘colpi al cuore’ sul piano emotivo). Il Paese è concentrato sul processo agli ufficiali militari che hanno scatenato la guerra civile e perché il processo possa avere concretezza sono essenziali le testimonianze delle vittime, che continuano ad arrivare numerose.
Un giorno, attraverso la storia di un’anziana signora venuta apposta da un villaggio lontano, Ernesto, il quale si approccia con grande tatto a chi si reca a narrare ciò che ha visto e vissuto, pensa di aver trovato una pista per ritrovare suo padre, un guerrillero scomparso durante la guerra. In questo punto narrativo specifico iniziano a incrociarsi più concretamente il privato con il ruolo istituzionale, trasmettendo quanto certe ferite non si possano rimarginare finché, forse, non ci si ritrova faccia a faccia con chi è rimasto (in primis le donne, le madri) e può raccontare ciò che ha subito. Lo spettatore non può non restare attonito ascoltando ciò che è avvenuto e osservando la carrellata di primi piani dei volti delle figure femminili (obbligate, ad esempio, a ballare sopra i mariti morti), segnate dall’età, ma soprattutto da ciò che il loro sguardo, le orecchie e il corpo non possono rimuovere – la mente va spontaneamente alle madri di Plaza de Mayo (l’organizzazione creata dalle madri dei dissidenti argentini scomparsi sotto la dittatura militare tra il 1976 e il 1983) e chissà quante altre mogli e madri, nel mondo, sono in cerca dei propri cari, desiderose di piangere almeno un corpo come da usanza nell’antica Grecia (e sarebbe rispettoso in una società civile) e noi non siamo a conoscenza di questo dolore indescrivibile.
Tornando al film di Díaz, all’interno di questa ricerca del giovane antropologo, s’inserisce il delicato e, al contempo, forte rapporto madre-figlio. Cristina (Emma Dib la rende ora fragile, ora una donna che assume su di sé il fardello della sofferenza di tante madri) ci viene presentata inizialmente sul letto, quasi nella posizione di chi è stanco di dover ricordare (non è un caso che sia restia a testimoniare); lui amorevolmente – quasi a ruoli invertiti – le rimbocca le coperte non appena rincasa. Assistiamo tra i due a momenti di scontro, dietro cui si cela il desiderio della madre di proteggerlo dalla cruda realtà. Ma qual è il prezzo della verità? E quello di rievocare e quindi di testimoniare davanti a tutti, ciò che si è provato sulla propria pelle e nell’anima?
Molto toccante la scena finale tra mamma e figlio, che non può cancellare ciò che è stato, ma significa molto per i due e resta impressa nella platea.
Il primo lungometraggio di César Díaz ha il coraggio di andare in profondità, presentando uno sguardo politico e commovente sulla storia dolorosa del popolo guatemalteco. Dopo esser stato insignito della Caméra d’Or alla miglior opera prima al Festival di Cannes 2019 e aver conquistato diversi riconoscimenti, ha ricevuto anche il Premio del Pubblico alla 30esima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.

Maria Lucia Tangorra

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