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Intervista a Stefano Lodovichi

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A tu per tu con il regista di “In fondo al bosco”

Inizia a 17 anni sui set di Francesco Falaschi, suo conterraneo, per poi portare avanti gli studi di critica del cinema all’Università di Siena. Abbiamo parlato con Stefano Lodovichi, regista e sceneggiatore italiano classe 1983, che dopo la produzione di alcuni cortometraggi (No End e Dueditre), un docu-film e diversi videoclip, nel 2013 dà alla luce il suo primo lungometraggio dal titolo Aquadro, prodotto da Mood Film e Rai Cinema. «Ho lavorato in reparti differenti (costumi, scenografia, produzione, fotografia e da assistente alla regia) prima di approdare alla regia vera e propria. Ma non ho mai fatto un corso o una scuola di cinema». Solo due anni dopo esce nelle sale italiane il suo secondo lavoro, In fondo al bosco, questa volta prodotto da Sky Cinema. «Il mio rapporto con il cinema è un rapporto in perenne contrasto: lo amo e lo odio, tanto da spettatore quanto da addetto ai lavori. E ancora non ho imparato, né so se ci riuscirò mai, a scindere questi due ruoli. Nel mio caso, e forse purtroppo, mi vedo sempre come il primo spettatore dei miei lavori. Ne consegue un piglio critico senza pietà che spesso mi porta a frenarmi o a prendere più tempo del dovuto prima di fare una scelta».

D: Il tuo secondo lungometraggio, In fondo al bosco, si sviluppa secondo me in due piani diversi. Il primo è sicuramente quello della cronaca nera, ad oggi molto presente in tutti i talk show italiani. Perché pensi che questi format – legati a doppio filo con una sorta di morbosità sociale – funzionino ancora così bene? Cosa spinge le persone a volersi addentrare nella sofferenza altrui ed a ricercare un capro espiatorio in ognuna di queste vicende?
S.L: Credo che dai tempi di Vermicino il gorgo senza fine del feticismo della cronaca nera ci abbia nutrito senza mai fermarsi realmente. Ci sono stati stop più o meno lunghi in cui l’opinione pubblica gridava allo scandalo ma il problema è che in realtà, ci piace. È quello che – incoscientemente perché pochi ammetterebbero di farlo con piacere – vogliamo quasi tutti: essere accanto al dramma, sul bordo del gorgo, sentirci in qualche modo parte in causa, spettatori che passano a 10 all’ora accanto all’incidente, tanto nella fase costruttiva dell’aiuto quanto di quella distruttiva del giudizio.
E con la proliferazione dei punti di vista consolidata con il web, questo discorso è peggiorato: siamo perennemente in attesa del dramma, pronti a trasmetterlo in diretta. Un esempio facile: da pochi mesi anche Instagram o Facebook hanno aggiornato le proprie app con la funzione della diretta live. Il prossimo passo sarà predire questi eventi, come abbiamo visto in Minority Report. I cinque minuti di cui parlava Warhol sono diventati questo: esserci, ora. Sempre sul pezzo.

D: Il secondo riguarda invece l’aspetto più strettamente culturale e folkloristico del film: il paesino di montagna e le sue tradizioni, in primo luogo. Se il Cinema di genere riflette i cambiamenti della società nel suo complesso, pensi anche che la dimensione comunitaria italiana, quella fatta ancora di usi e costumi ancestrali, possa essere utilizzata per tornare a far paura dentro ad un mondo sempre più interconnesso?
S.L.: Non è un caso che quasi tutti gli horror di successo parlino di possessioni (non per forza connesse alla religione – penso a The Thing di Carpenter, in quel caso l’alieno entra dentro di noi e ci trasforma). Quello che funziona e funzionerà sempre è la paura dell’ignoto, dell’inspiegabile, dell’alieno da noi che ci terrorizza. I Krampus, così come altre leggende folkloristiche, “si nutrono” di questa paura oggi più che mai.
Stiamo vivendo un momento dove il futuro immaginato per decenni sembra quasi presente (nanotecnologia, realtà aumentata, incremento delle capacità fisiche umane grazie alla robotica e la grande attesa per la creazione della prima intelligenza artificiale), un periodo in cui senza connessione siamo sperduti. In un contesto come questo la tradizione, il passato, la leggenda, è sempre più lontana e dimenticata. Sempre più sconosciuta, sbiadita nella nostra memoria. E quindi… aliena.
In un contesto come questo, il genere, in particolar modo l’horror, non può che proliferare.

D: Qualche tempo fa, sulle pagine di Internazionale, Matteo Bordone uscì con un articolo interessante quanto incauto. Egli sostenne, peccando forse di presunzione, che (cito non testualmente) il cinema di genere in Italia non è mai esistito. Come al solito in questi casi, la verità va forse ricercata nel mezzo: se il cinema in Italia è esistito ed esiste, è pur vero che non gode di certo di buona salute. Come la pensi sull’argomento?
S.L.: Non sono un amante delle definizioni. Non credo che i bei film di genere, quelli considerati di genere, siano completamente di un genere solo. Si parla sempre di mix di tono, atmosfere, trama ecc. Penso ad Alien: è un horror e allo stesso tempo un film cardine della fantascienza.
A dirla tutta nutro invece un certo ottimismo per questo momento storico. I buoni risultati al botteghino e in tv de Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento o il più recente Mine, così come anche di In fondo al bosco, sono tutti tentativi riusciti. Sono film che non sono stati pensati direttamente per il pubblico ma che comunque trovano il riscontro positivo del pubblico. E questo perché sono stati scritti e girati da una generazione di sceneggiatori e registi che vuole liberarsi dalle stereotipe categorie autoriali con le quali sono cresciuti per fare quello che li diverte. Ed è in questo che trova il consenso del pubblico.

D: Tra evidenti limiti economici e forse qualche barriera culturale, la produzione cinematografica italiana risulta oggi appiattita in una dicotomia che vede il cinema d’autore da una parte e la commedia (alcune volte politicamente impegnata) dall’altra. Come si può superare questa frattura, cosa che prova a fare In fondo al bosco, per ampliare l’offerta al pubblico e (ri)abituarlo ad un qualcosa di narrativamente differente?
S.L.: Personalmente sono convinto che siamo quello che mangiamo. E questa generazione, la mia generazione (quella di Mainetti, Rovere, Aronadio, Sportiello, Artale, Messina, Guaglione e Resinaro, Johnson, Silvestrini, De Angelis, Noce e molti altri), una generazione mediamente di neo trentenni, è cresciuta guardando i grandi film di avventura e azione degli anni ’80. Si è nutrita di Spielberg, Lucas, Donner… E per questo non potrà che tendere a quell’apertura narrativa internazionale, rielaborata però in chiave personale, europea, italiana perché siamo comunque i nipoti del neorealismo e della commedia all’italiana e, per fortuna o purtroppo, abbiamo tutti studiato cinema.
Se un tempo (e parlo di pochissimi anni fa) come dici tu, l’offerta era ristretta, credo che oggi non sia più così. Le recenti aperture di Rai alla rete (Aquadro, il mio primo film è stato prodotto per la piattaforma online di Rai), di Sky al Cinema e l’arrivo di Netflix e Amazon non possono che essere la dimostrazione che il cinema italiano, il nuovo cinema italiano – se vuoi, di genere o preferirei “di generi” – è in piena saluta e sta crescendo molto bene.

D: Quanto pesa – sui giovani registi emergenti prima ancora che sugli spettatori – l’eredità lasciata dai registi della Vecchia Guardia (Fulci, Argento, Bava, Avati, Deodato) e com’è possibile superarla? Ti ha condizionato? In che modo provi a svincolarti?
S.L.: Personalmente non ci penso. Così come non penso a Fellini, Antonioni, Risi, Monicelli, Visconti, Nanni MorettiPaolo Sorrentino o Matteo Garrone. O ai grandi registi stranieri che amo o che ho studiato. Ci sono autori che sicuramente mi hanno influenzato, alcuni più di altri, ma non mi confronto con loro con consapevolezza. Per questo motivo non penso ci sia da superare qualcosa, o un’eredità da portare avanti. Cerco di raccontare le storie che mi piacciono secondo il tono e attraverso le atmosfere che più mi ispirano.

D: Le serie tv hanno dettato per lungo tempo i gusti del pubblico, forse perché in grado di entrare maggiormente in empatia con chi guarda rispetto alle riflessioni in pillole offerte dai lungometraggi. Sembrano però entrate adesso in una fase discendente. Tu le guardi? Dal punto di vista di un regista, cosa significherebbe per te dirigere una intera serie tv?
S.L.: Tutto è cominciato con Dawson’s Creek, poi ci sono ricaduto nel 2010 quando, in previsione della sesta stagione di Lost, mi sono visto tutta la serie in pochi giorni. Poi sono arrivati Battlestar Galactica, Mad Men, Breaking Bad… e da lì non mi sono più fermato. Oggi sono dipendente dalle serie. E le amo perché ti danno la possibilità di affezionarti veramente ai personaggi e alle loro avventure.
I registi nelle serie non sono quasi mai autori. Sono spesso tecnici, bravissimi tecnici, che lavorano in funzione della scrittura. Li ho sempre immaginati come degli amanti che vanno e vengono. E personalmente sarei interessatissimo a dirigere episodi di belle serie ma sotto sotto sono un romantico e punto a innamorarmi. E per innamorarsi devi crescere e coltivare la storia che racconti, per questo mi piacerebbe molto poter prendere parte anche alla fase creativa di una serie proprio in previsione della regia.

D: Con quale regista o attore, sia italiano che straniero, ti piacerebbe collaborare in futuro? Perché?
S.L.: Sono tanti gli attori stranieri che mi piacciono. Troppi. Tra i più giovani ti direi sicuramente Paul Dano.

D: Vivere della propria passione oggi, soprattutto in Italia, non è cosa per nulla facile. Cosa vuoi suggerire agli artisti tutti che intendono percorrere con determinazione questa strada? Quali sono le regole della ricetta che offri?
S.L.: A 33 anni non penso di avere consigli realmente utili da dare. Più che altro sono aspetti della mia esperienza. Comunque non me lo faccio ripetere e ci provo – è una tentazione troppo bella quella di giocare a dettare i miei comandamenti, aka “fare dio”:
1) Da soli non si va da nessuna parte. Un gruppo di collaboratori con i quali crescere umanamente e professionalmente è fondamentale, tanto nei momenti di soddisfazione quanto in quelli senza soldi o di altra disperazione.
2) Vai sui set a vedere come si fa veramente il lavoro. Non lo imparerai certamente a scuola. Studia comunque quello che riguarda questo mestiere: storia dell’arte, musica, storia, letteratura… studia. Ma lo puoi fare anche da solo.
3) Di sicuro se vieni dalla provincia come me, c’è un fondamentale compromesso da accettare: trasferirsi a Roma. Non devi per forza amarla come città, però cerca almeno di entrarci in sintonia.
Per me è stato lo step più complicato.
4) Pensaci bene: non devi farlo per forza.

D: Parlaci del tuo futuro prossimo: film, collaborazioni, progetti esterni.
S.L.: In questo periodo sto lavorando molto alla scrittura di alcuni nuovi progetti (lunghi, doc, pubblicità) ed è un momento dove inizio ad aprirmi a nuove collaborazioni: nuove realtà produttive e nuovi sceneggiatori che si sommano al gruppo con cui lavoro da sempre (Isabella Aguilar e Davide Orsini).
Posso dirti anche che da pochi mesi tengo un corso di regia allo IED di Roma: e questa è forse la sfida più delicata che mi sia capitata finora.

Riccardo Scano

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