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Ouija – L’origine del male

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VOTO: 7

Un ponte tra vivi e morti

Fornire nuova linfa ad un orrorino giovanilistico come Ouija (2014) – peraltro prodotto, come pure l’oggetto della nostra disamina, dalla temibilissima Blumhouse dell’altrettanto famigerato Jason Blum, massimo artefice del genere a basso costo e al grado zero di idee, tranne qualche rara eccezione – poteva non essere impresa facile. Mike Flanagan, regista che nell’ambito del cinema di genere potremmo considerare ad un passo dalla tanto auspicata autorialità, ha aggirato la potenziale trappola attraverso il più semplice dei passi laterali: quello cioè di realizzare un prequel temporalmente lontano dalla mediocrità intellettuale dei nostri tempi, per riscoprire elementi vintage nella creazione della paura cinematografica.
Ci troviamo infatti nel 1967. Una famiglia che ha appena perso il proprio punto di riferimento maschile – dolore o menomazione uguale vulnerabilità, consuetudine nel cinema di Flanagan – composta da madre Alice e due figlie, l’adolescente Lina e la piccola Doris, si arrabatta come può per sbarcare il lunario, millantando poteri medianici che in realtà sanno molto di recita organizzata. Il desiderio di venire davvero a contatto con il caro estinto è però parecchio forte, per cui, mediante la solita tavoletta, si tenta una vera seduta che avrà, come ovvio, conseguenze piuttosto negative, tipo la possessione della figlioletta più piccola. Questa, a grandi linee, la trama di Ouija – L’origine del male, lungometraggio perfettamente incasellabile nello sfruttato filone esorcistico. Se non fosse che Flanagan possiede più di un asso da giocarsi al metaforico tavolo. In primis, dopo una fase preparatoria caratterizzata da un’ insolitamente approfondita descrizione dei personaggi e delle loro situazioni esistenziali, c’è il lavoro sulla messa in scena. Pochi registi hanno saputo e sanno rendere come lui tremendamente efficace da un punto di vista formale il passaggio da una dimensione reale ad una oscura, ovviamente nell’ambito della finzione. L’uso dei classici stereotipi (voci gutturali, movimenti snodati, scantinati oscuri che nascondono terribili segreti) nelle mani di Flanagan perdono la concezione ludica per trasformarsi di nuovo in elementi capaci di generare angoscia, come accadeva nell’ormai venerando – solo da un punto di vista cronologico, beninteso – capostipite illustre diretto da William Friedkin. Fornisce inoltre un ottimo apporto alla causa del film la performance della ragazzina in balia del o dei demoni di turno: Lulu Wilson nei panni di Doris risulta un vero e proprio catalizzatore di terrore, diegeticamente molto più attiva rispetto all’omologa Regan/Linda Blair del già menzionato L’esorcista. Se poi si aggiunge un sottotesto narrativo riguardante l’Olocausto, con i suoi carnefici ancora persecutori anche dall’aldilà e le sue povere vittime tuttora inquiete, ecco che il quadro delineato nel proprio insieme supera di slancio ogni prevedibilità pur presente in prodotti di questo tipo.
Non il miglior lungometraggio di Flanagan, insomma, visto che il recente Somnia – per tacere dell’oggetto di culto Absentia (2011) – si distingueva per una maggior originalità di sceneggiatura ed il viaggio verso la cosiddetta “altra dimensione” raggiungeva altri picchi di visionarietà. Tuttavia, all’interno di un sottogenere, quello appunto esorcistico, che pare ormai aver sviscerato tutto ciò che c’era da dire e approfondire, sovente trasformandosi in un banale fuoco d’artificio di effetti speciali, Quija – L’origine del male compie certamente qualcosa in più del proprio “sporco” dovere di intrattenere e magari spaventare, rimanendo ben saldo nell’ambito della concezione nobile di un cinema del quale si va, irrimediabilmente, perdendo lo stampo.

Daniele De Angelis

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