Home Speciali Saggi Paolo Sorrentino, un autore senza frontiere

Paolo Sorrentino, un autore senza frontiere

279
0

Da Napoli sino a “The Young Pope”: una carriera internazionale

È previsto per metà 2016 il passaggio su Sky del nuovo lavoro di Paolo Sorrentino The Young Pope – Il giovane Papa: una serie tv di 8 puntate. Una coproduzione internazionale per la quale si sono messe insieme l’americana HBO (per intenderci la stessa di Game of Thrones e True Detective), Canal+ e Sky. Internazionale è anche il cast che vede Jude Law come protagonista, accanto a Silvio Orlando e Diane Keaton. A quanto pare la serie – scritta assieme al fedelissimo Umberto Contarello oltre che a Tony Grisoni e Stefano Rulli – racconterà di un immaginario Papa italo-americano: Lenny Belardo che con l’inizio del suo Pontificato diventa Papa Pio XIII.

La parola internazionale può essere ormai utilizzata anche per qualificare la carriera di Paolo Sorrentino che lo è palesemente diventata. L’unica cosa che bisogna capire se ciò rappresenta un fattore positivo oppure un limite per il regista partenopeo.
Il suo ultimo film Youth è suscito nelle sale cinematografiche il 20 maggio in concomitanza con la presentazione alla 68ᵃ edizione del Festival di Cannes, era già, appunto, un film Internazionale. Nonostante il regista, durante la fase di lavorazione, ne abbia parlato come di un “piccolo film” (da Fabio Fazio a Che tempo che fa) e che ha girato – sembrerebbe – quasi per rilassarsi, il film è risultato paradossalmente anche più pretenzioso di La grande bellezza.
Ci sono molti elementi in comune con l’altro film precedente di produzione – ancora! – internazionale del regista che è stato This Must Be the Place, e che, a giudizio di chi scrive, è – assieme a Youth – il film meno riuscito del regista napoletano.
Ma – cercando di seguire in maniera non strettamente pedissequa gli insegnamenti che ci provengono dai Giovani Turchi della Nouvelle Vague – il film di Sorrentino lo si può meglio valutare se giudicato all’interno del corpus totale della sua produzione (cosa che può dare un valore aggiunto o meno indipendentemente dall’opera in sé. Le pellicole di un regista rappresentano singolarmente ognuna un tassello di una filmografia in continua evoluzione).

Quindi partiamo dall’inizio e diamo vita ad una “rapida” carrellata della sua filmografia: Paolo Sorrentino esordisce nel 2001 con l’iridescénte L’uomo in più: splendente raggio di sole nella decadente cinematografia italiana di quegli anni. Nel primo film ci sono già, in buona parte, tutti gli elementi che caratterizzeranno il cinema sorrentiniano. Innanzitutto i due omonimi protagonisti (uno calciatore e l’altro cantante) Antonio Pisapia: due losers che si sono trovati all’apice del successo e, in maniera abbastanza repentina, hanno conosciuto il declino e si sono trovati costretti a fare i conti con la fine della fama, della gloria ed anche della ricchezza sullo scenario della Napoli degli anni ottanta. Il calciatore, per problemi anagrafici, vuole reinventarsi allenatore, ma non ci riesce in quanto «Il calcio è un gioco» e «lui è fondamentalmente una persona triste». La carriera del cantante viene invece stroncata dal vizio della droga e soprattutto da uno scandalo relativo ad una sua relazione con una ragazza minorenne che lo porterà all’allontanamento da parte del suo pubblico borghese e benpensante. Nel giro di qualche anno perciò i due Antonio passano da idoli delle folle a perfetti sconosciuti, sprofondando in un baratro di assoluta depressione e solitudine. Le loro due vite si incroceranno al momento di Nadir personale per entrambi, ma solo uno dei due saprà reagire e riuscire in qualche modo a vendicare, anche con un gesto estremo, le angherie subite dall’altro. I due volti si incontrano – per tutta la durata del film – una sola volta in uno sguardo eterno, irripetibile, liberatorio, misticheggiante: un attimo di puro ed autentico Cinema.
I due sono legati da un enigmatico filo invisibile che li rende due doppi e, come scrive Mereghetti, «Le due storie sono legate da parallelismi semi-fantastici e da sottolineature simboliche alla Kieslowski». I due protagonisti (di cui l’altro attore è Andrea Renzi) sono ispirati a persone reali: il Tony Pisapia calciatore è ispirato ad Agostino Di Bartolomei, il Tony Pisapia cantante è ispirato per metà a Franco Califano e per l’altra metà a Peppino Gagliardi.
Emblematico e di una bellezza sublime è il monologo finale di Toni Servillo sulla summa della vita, quando si crede che tutti i microfoni nello studio televisivo in cui lo stanno intervistando, siano spenti. Un momento in cui l’amarezza prevale sull’indignazione.
Paolo Sorrentino riesce con grande forza registica a illuminare le cause più intime, forse inconsce, delle solitudini dei due protagonisti. La plurivocità (o anche il rizoma, come lo chiamerebbero Deleuze e Guattari) del centro nodale della pellicola riflette la poliedrica complessità strutturale del cinema di Sorrentino. All’incredibile vastità tematica corrisponde quella narrativa, registica ed anche musicale (che pure diventa un elemento centrale, e che va dalla disco-dance a quella leggera fino al pop anni ’80).

Il personaggio di Tony Pisapia-cantante sarà di ispirazione allo stesso Sorrentino per il romanzo che pubblicherà nel 2010 dal titolo “Hanno tutti ragione” al cui protagonista – a sua stessa detta – ha trovato un cognome migliore: Pagoda. Il libro, che non sembra affatto un’opera prima me bensì l’opera matura di uno scrittore navigato, racconta appunto le avventure di Tony Pagoda, un cantante neomelodico nel doppio scenario della Napoli e del Brasile degli anni ottanta. Hanno tutti ragione si è piazzato al terzo posto al Premio Strega 2010 ed è stato candidato all’Alabarda d’Oro 2010 – Sezione Letteratura. A quanto pare il talento di Sorrentino mostrato anche nel campo della letteratura ha suscitato le antipatie e gli strali di molti; soprattutto di quelli che di mestiere sono proprio degli scrittori, e non che hanno toccato questa disciplina in maniera tangenziale come il nostro Sorrentino.

Tre anni dopo L’uomo in più, nel 2004, esce il bello e denso, ma anche troppo sovrastimato, Le conseguenze dell’amore che si avvale ancora una volta di un buono sfoggio di tecnica e di una impressionante prova attoriale di Toni Servillo. Il film – presentato anch’esso in concorso al 57˚ Festival di Cannes – viene premiato ai David di Donatello, ai Nastri D’Argento ed ai Globi d’Oro e impone definitivamente Sorrentino e Servillo sulla scena cinematografica italiana. Il film racconta la storia di Titta di Girolamo – «Un nome ridicolo, di quelli che possono capitare a chiunque!») – un uomo di 50 anni che vive da 8 in un albergo in Svizzera. Contabile della mafia il cui unico compito è riciclare il denaro sporco. Nonostante la frivolezza del nome, Titta Di Girolamo non è una persona frivola: è una persona consistente, che ha etica, eleganza, profondità, e forza. Crede nell’amicizia perché «Se uno è stato amico di un’altra persona, nella vita, lo è per sempre».
Ma la sua esistenza è monotona, ripetitiva e… misantropa! Soffre d’insonnia e non parla mai con nessuno, e si limita a scandire il tempo della giornata fumando incessantemente. Fuma anche salendo le scale. Unico gesto che rompe la monotonia è l’assunzione di eroina una volta a settimana. Il suo passibile distacco dalla vita entra in crisi quando irrompe l’amore nella sua vita e si innamora della barista Sofia (interpretata da Olivia Magnani, nipote della ben più famosa Anna) e l’arrivo di due killer che cercano di derubarlo…
Nonostante sia diventata famosa la clip del film con la frase “Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore” il film è ben lontano da essere un film sentimentale, essendo bensì una storia di ribellione contro un potere forte e l’amaro finale rende giustizia all’inettitudine forzata del protagonista riuscendo a renderlo un “vincitore”. Le conseguenze dell’amore sono una forza così grande che riesce a sconvolgere anche una vita cui tutti i minuti della giornata sono scadenzati da imprescindibili abitudini.
Il film mostra in maniera evidente la bravura tecnica di Sorrentino. Nel film sono presenti eleganti movimenti di macchina precisi al millimetro, alternati a macchina a spalla e montaggio sincopato tutti per scelte artistiche sensate e non per sterile sfoggio di bravura (come sarà poi in futuro!). La recitazione di Servillo prosegue per sottrazione: impressionante la varietà di sfaccettature cui riesce a dare alla sua recitazione pur mantenendo il viso immobile.
Probabilmente gli unici difetti che si possono riscontare e che non lo rendono un capolavoro (per questo motivo quindi sopravvalutato) è un estremo espressionismo didascalico che da al film un tono eccessivamente “ampolloso”. Ma ad avercene di film così in Italia…

Due anni dopo, nel 2006, è la volta del non del tutto riuscito L’amico di famiglia in cui Sorrentino si affida al pur bravo caratterista napoletano Giacomo Rizzo al posto del fido Servillo.
Questa volta il film è ambientato a Sabaudia e racconta di Geremia de’ Geremei (sic!), soprannominato “Cuoredoro”, sarto e usurario di professione, settantenne bruttissimo, lercio e soprattutto tirchio che ha una passione/ossessione per i cioccolatini e vive in una modesta abitazione con l’anziana madre, immobilizzata a letto. Un cattivo che, conscio di aver oltrepassato il limite, si abbandona alla solitudine con la rivincita di ricattare gli uomini attraverso la loro più grande debolezza: il denaro. Ad aiutarlo nel suo lavoro c’è Gino (interpretato dal sempre bravo Fabrizio Bentivoglio) il suo fedele informatore, che si veste da tragicomico cow-boy e vive in un camper, sognando di potersi trasferire nel Tennessee.
Geremia perde la testa per la novella sposa Rosalba (interpretata da una mai così bella Laura Chiatti) la quale gli si concede per pagare i debiti del padre, un industriale che ha bisogno di un milione d’euro. Il finale sarà amaro per il protagonista, che resterà ancora più solo di quanto già lo era.
L’amico di famiglia, nonostante si distingua per un’originalità lontana da qualsiasi italico standard, mette in luce quelli che saranno i difetti del cinema sorrentiniano a venire: un’autocoscienza della propria bravura tecnica che viene sfoggiata senza controllo e che rischia di apparire “arrogante”: una regia iper-esibita, esplicita, palesata di una macchina da presa impazzita, mai doma, sempre inusuale e tesa a valorizzare l’artificio cinematografico più che la naturalezza realista di un cinema inteso come statica e immobile finestra sul mondo.
Geremia de’ Geremei risulta molto simile al quasi contemporaneo Peppino Profeta, L’imbalsamatore, interpretato dal sublime (e misconosciuto) Ernesto Mahieux. Ma mentre a Garrone riusciva in maniera efficace e naturale rappresentare lo squallore e la “deformazione” di un ambiente sociale attraverso il suo infimo protagonista, con Sorrentino si ha come l’impressione che egli stesso avvertisse il bisogno (o anche l’assillo) di fare un film d’autore a tutti i costi. Per cui dalle iniziali intenzioni di girare un lungometraggio sulla solitudine, sugli abissi della coscienza e sullo squallore dell’Italia contemporanea (infatti se Geremia risulta mefistofelico per il modo in cui attrae e trattiene nella sua tela, fatta di continui ricatti, le proprie vittime, non sono certo da meno tutti quelli che lo circondano!) ne esce fuori un nichilismo esasperato e sbandierato sia nei dialoghi (molte frasi di Rizzo cominciano ad essere fastidiosamente sentenziose, perdendo la qualità che invece avevano in bocca a Servillo) sia nella mise-en-scéne eccessivamente ridondante. Come ridondanti sono gli intermezzi onirici ed i lunghissimi inutili silenzi, o anche le bizzarrie gratuite.
Si avverte, insomma, un profondo disequilibrio tra gli elementi nel risultato finale del film e tutto il virtuosismo risulta alla fine… vano! Come scriveva Fabio Ferzetti anni fa «[…] E abusando dei suoi doni più vistosi, inquadrature ad effetto, dialoghi taglienti, ambientazioni bizzarre, non sempre trova l’equilibrio, la coerenza, la profondità necessaria a questa parabola affascinante ma a tratti scoperta e sottolineata da musiche invadenti. A conferma di un grande talento, che qui però finisce per prendere in ostaggio i suoi stessi personaggi».
Se ne sono accorti anche a Cannes, dove il film è stato accolto freddamente. Tant’è che Sorrentino decise di procrastinare la data di uscita del film nelle sale al fine di cambiare il montaggio di alcune scene ed accorciare il film di ben 6 minuti, cambiando addirittura il finale.

Nel 2008 Sorrentino sforna il suo capolavoro: Il Divo: la spettacolare vita di Giulio Andreotti con il ritorno di Toni Servillo nei panni del politico romano e che si aggiudica il Premio della Giuria al Festival di Cannes di quell’anno, 4 Nastri d’Argento (regia, sceneggiatura, attore protagonista e produzione), 7 David di Donatello (attore protagonista, attrice non protagonista [Degli Espositi], fotografia, musica, trucco, acconciatore ed effetti visivi), ed ottiene una candidatura ai premi Oscar 2010 nella categoria Miglior Trucco.
Il film è uno straordinario affresco dell’Italia della fine della Prima Repubblica e sul potere rappresentato in tutta la sua ambiguità dal politico.
Nonostante il titolo del film e le apparenze, anche questa è la storia di un loser, del declino di un vincente: Il Divo narra una piccola parte della lunga vita – politica ed anagrafica – di Andreotti, nello specifico degli eventi occorsi tra il 1991 (alla vigilia della presentazione del suo settimo ed ultimo governo) ed il 1993 (quando riceve l’avviso di garanzia dalla Procura di Palermo con l’accusa di collusione con la mafia e l’inizio del processo). Il film si concentra quindi sugli eventi che hanno portato alla fine del potere di Giulio Andreotti e della sua corrente, gli Andreottiani, tra cui Paolo Cirino Pomicino (ed in questo caso Sorrentino tira fuori dal cilindro il noto attore comico della compagnia di Vincenzo Salemme: Carlo Buccirosso, perfetto nella parte!), Vittorio Sbardella detto Lo squalo, Franco Evangelisti (interpretato da Flavio Bucci), Giuseppe Ciarrapico, e Salvo Lima.
I titoli di testa sono fra i più belli mai visti nel cinema italiano: una lunga serie di omicidi e suicidi celebri – tra cui Aldo Moro, il generale Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Mino Pecorelli, Michele Sindona – girati in stile puramente tarantiniano e accompagnati dalla “cool” Toop toop dei Cassius. L’incipit è soltanto il primo di una lunga serie di invenzioni visive e narrative in un trip pirotecnico di un film che rappresenta un unicum nell’intera cinematografia italiana di inchiesta e non solo.
Toni Servillo interpreta magistralmente Andreotti, riuscendo con il suo grande mestiere ad evitare di cadere nello scimmiottamento, nella caricatura o anche nella semplice imitazione. Un lavoro attoriale finissimo e dalle mille sfaccettature che da ad Andreotti un tono grottesco (come il tono del film e che è anche la personale chiave di lettura di Paolo Sorrentino) e il suo scavare l’interiorità del personaggio (basandosi in parte sulla realtà, in parte sulle raffigurazioni popolari ed in parte sul Mito) è semplicemente oltre.
Giulio Andreotti è rappresentato nella sua piena ambiguità, che è sempre stato poi una sorta di suo personalissimo marchio di fabbrica: un uomo enigmatico, il simbolo stesso del Potere, e che ha avuto mille soprannomi (oltre Il Divo, anche Il Papa Nero, Belzebù, La Volpe, Il Gobbo…), tormentato da una perenne emicrania, la cui ossessione nei confronti di Aldo Moro del cui peso della sua morte (nei confronti della quale le responsabilità di Andreotti non sono mai state del tutto chiarite) pesano su di lui come un macigno e che lo tormenterà per tutta la vita. Un uomo imperscrutabile che nessuno probabilmente ha mai conosciuto fino in fondo, neanche le persone che gli erano più vicine come il suo “portaborse” Franco Evangelisti, o la moglie (interpretata dalla sempre brava Anna Bonaiuto) e la sua segretaria Vincenza Enea (Piera Degli Espositi), gli unici due personaggi veramente “umani” del film. Infatti l’Uomo Andreotti, consacrato totalmente al potere, nel privato è un uomo drammaticamente solo (come gli altri anti-eroi della filmografia sorrentiniana) circondato dall’affetto di un un’unica persona: la moglie.
Il film si colloca accanto alla nobile tradizione italiana di film di denuncia come quelli degli illustri precedenti di Sorrentino: Elio Petri, Francesco Rosi o Giuseppe Ferrara (Giovanni Falcone), o ad altri film più recenti come ad esempio quelli di Marco Tullio Giordana (come Pasolini, un delitto italiano, I cento passi e Romanzo di una strage), Marco Risi (Il muro di gomma, Fortapàsc) che hanno tentato di far luce sui tantissimi misteri rimasti irrisolti della storia italiana a partire dalla Strage di Piazza Fontana.
Ma il film di Sorrentino si differenzia e, ancora, va oltre in quanto il regista non intende stabilire la verità riguardo le innumerevoli responsabilità dello Statista democristiano, in quanto egli sa che risulta impossibile fornire una versione ufficiale di quella “storia oscura”. Ma intende piuttosto dare vita ad una sorta di “affresco” dell’Italia della prima Repubblica ed il film alterna momenti autentici basati sui fatti a momenti puramente di invenzione o ipotetici (come l’incontro di Andreotti con Totò Riina ed il famoso “bacio”). Nonostante ciò non sospende il suo giudizio, e da ad Andreotti (tramite il suo monologo finale in cui Andreotti si assume la responsabilità di praticare il Male per difendere e promuovere il Bene) una connotazione Machiavellica, intesa nel senso che un politico non possa essere buono ma al contrario ambiguo e scorretto. Che è poi la natura stessa di un “buon” politico.

Il film fu molto apprezzato dal Presidente della Giuria del Festival di Cannes Sean Penn, il quale fece i complimenti in persona a Sorrentino dicendogli che avrebbe desiderato lavorare con lui.
Il regista napoletano non se lo fa ripetere due volte ed in quattro e quattr’otto presenta all’attore americano un copione, This Must Be the Place,  che sulla carta sembra promettere veramente bene. Gli elementi per un capolavoro ci sono tutti: un cast internazionale formato da ottimi attori (oltre Penn sono presenti Frances McDormand ed Harry Dean Stanton. P.S. Manca Servillo!), una colonna sonora scritta da David Byrne dei Talking Heads e che appare nel film nel ruolo di sé stesso, ed una sceneggiatura bomba.
Il film che ne viene fuori (nel 2011) però non è buon film: L’ambientazione americana ed il personaggio (un loser catapultato direttamente dagli anni ’80 ed ispirato nel look a Robert Smith dei Cure) sono perfetti. Sean Penn, con capelli corvini, voce lamentosa ed una camminata artritica, è straordinario nel ruolo di Cheyenne, ex cantante rock di grande fama ed ora divorato dalla noia. Vive con la moglie pompiere senza figli perché in quanto cantante rock sua figlia «rischi di vederla diventare una stilista eccentrica». Viene a sapere della morte di suo padre, un ex deportato ad Auschwitz. Cheyenne parte quindi per rintracciare il suo torturatore nei campi di concentramento che sa che è ancora vivo da qualche parte. Il film diventa allora una sorta di on the road negli splendidi scenari americani, strizzando l’occhio al capolavoro di Wim Wenders Paris, Texas (il cui protagonista era Harry Dean Stanton, presente anche nel film di Sorrentino).
Ma la storia da questo momento in poi smette di essere avvincente riducendosi ad una serie di incontri con personaggi bizzarri (tra cui un gruppo di turisti tedeschi, una vecchia madre ed il bambino obeso e con Harry Dean Stanton che nel film recita il ruolo dell’inventore delle valigie con le ruote). Ma la cosa peggiore è che Sorrentino ci tiene a gridare al mondo quant’è bravo in ogni singola sequenza. In questo modo muove la macchina da presa in maniera frenetica ed ossessiva con il solo risultato di creare un disturbante mal di testa (e di stomaco!) allo spettatore. Sorrentino da parte sua sa cosa vuole trasmettere: quel senso di spaesamento delle anime fragili, quel sapore mancato di rimorso e rimpianto, di azioni sbagliate, e l’immenso vuoto che separa le anime degli esseri umani anche quando sono vicine. Ma non ci riesce.  Riesce solo ad essere fastidiosamente ridondante.
I suoi personaggi sono lì e potrebbero rompere lo schermo che divide la loro anima dalla nostra, ma questa cosa non avviene mai. Sbagliati sono anche – a giudizio di chi scrive – il finale, e soprattutto l’antipatico sotto-finale con la “metamorfosi” di Cheyenne a “persona normale”.
Il film, inoltre, non ha la circolarità che invece era presente nei film precedenti del regista, ma il cammino di Cheyenne e piattamente orizzontale.

Ancora due anni dopo, nel 2013, è la volta di La grande bellezza, film che è valso l’Oscar per il Miglior film straniero al regista. Film criticatissimo in patria ma – ancora a giudizio di scrive – Oscar meritato e – soprattutto – rispetto ai predecessori più o meno contemporanei del napoletano (Mediterraneo, Nuovo Cinema Paradiso, La vita è bella) finalmente questa volta si tratta di Cinema.
Il protagonista del film, Jep Gambardella interpretato ancora dal fido Servillo, è ancora una volta un loser, uno scrittore dal tono querulo che ha scritto un unico libro 40 anni prima (dal titolo L’apparato umano) e che sa che non potrà vivere mai all’altezza delle aspettative, ma campa di rendita e che da allora si è immerso nell’infinita giostra della dolce vita romana piena – soprattutto – di feste e musica assordante (il cui unico scopo per Jep è quello di assordare la sua anima che urla dolore). Nel film oltre le feste, c’è la sfilza di «fauna umana» come li chiama Gambardella: i turisti, i lenoni, gli esibizionisti, le conversazioni pettegole in terrazza con accuse e controaccuse, c’è Carlo Verdone (chiamato emblematicamente Romano) che vive nell’eterno cercare di portare in scena un suo testo teatrale e rincorrendo una donna che è più interessata ad altro, c’è l’artista che danza nuda e si lancia di corsa contro un pilone di un antico romano fino a sbatterci una testata contro senza saper spiegare la motivazione del suo gesto, c’è il cardinale (interpretato dal grande Roberto Herlitzka a cui non interessa la spiritualità ma la buona cucina, una bambina che dipinge quadri con secchiate di colore sulla tela, una santa più che centenaria che vive di radici. E ancora ricchi insoddisfatti, nobili decaduti, snob e radical chic. Tutti quanti ad un passo dall’abisso e poi c’è Jep “il re dei mondani” che osserva e partecipa dall’alto della sua esperienza a tutti i riti di tutte le notti.
Numerosi i riferimenti letterari tra cui il personaggio di Ramona (interpretato da Sabrina Ferilli) ispirato alla Nadja di André Breton (nel film viene citato da Jep l’incipit del romanzo: «Chi sono io?») realmente esistita e morta in manicomio. Viene citato, poi, più di una volta lo scrittore Gustave Flaubert e la sua ambizione di “scrivere un romanzo sul nulla”. A mio giudizio è proprio ciò che si è proposto di fare Sorrentino con il suo film: un film sul Nulla. Concetto da non intendersi in senso negativo. Ma piuttosto un Nulla pieno di senso. Forse Sorrentino conosce la filosofia meontologica di Nishida Kitarō. Chissà!?
Bruno Fornara, nel suo libro Geografia del cinema – Viaggi nella messinscena, parlando del cinema di Ozu Yasujirō riesce a rendere comprensibile tale concetto citando Lao-Tzu: «autore del Tao-têching, il Libro della Via e della Virtù che sta all’inizio del taoismo. Dice Lao-Tzu, nel capitolo XI, in un luogo classico, sapienziale ed enigmatico del pensiero orientale: Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non è”. Ovvero: è vero che ci vuole l’argilla per fare un vaso ma è lo spazio vuoto all’interno del vaso a renderlo utile. Utilità del mu, di un vuoto produttivo. Con ciò non intende certo proporre un parallelismo con il regista giapponese, bensì affermare che il cinema di Sorrentino, soprattutto nel presente film che ha tra l’altro un approccio dichiaratamente anti-narrativo, vive di “spazi vuoti” che lo sono soltanto in apparenza. I significati sono da ricercare nel “non detto”, all’interno del vuoto stesso pregno di senso. In La grande bellezza c’è una grossa porzione di testo che “sfugge” al contesto, ma che – quasi magicamente – risulta la parte più forte ed espressiva del film.
Assolutamente fuori luogo sono invece i parallelismi proposti all’uscita del film con La dolce vita. Lo stesso Sorrentino ha detto di non essersi ispirato al film di Fellini ma nessuno lo ha ascoltato.
Sbagliate anche le accuse che sostengono che Sorrentino abbia girato un film in cui dipinge una Roma brutta e decadente. Roma è invece la solita splendida eterna città. È l’umanità che è decadente, o meglio ancora – come ha detto Buccirosso durante un’intervista – «’Ca stà ‘nguaiata!».

L’anno scorso ha infine presentato il suo ultimo lavoro: Youth – La giovinezza (anche se nel film c’è più vecchiaia!) tornando ad una produzione internazionale e ad un cast stellare: Michael Caine, Harvey Keitel, Jane Fonda, Paul Dano e Rachel Weisz.
Fred (Caine), ex compositore e direttore d’orchestra, e Mick (Keitel), regista, sono due vecchi amici. Vecchi e amici. I due trascorrono un periodo di vacanza in un lussuoso albergo sulle Alpi. Mick sta scrivendo la sceneggiatura del suo prossimo film che è intenzionato a far interpretare alla sua fidata attrice Brenda (Jane Fonda). Fred sta cercando di espiare il senso di colpa della morte delle moglie che si rammarica aver trascurato e tradito molte volte. Fred viene rintracciato nell’albergo da un inviato della regina Elisabetta che viene a chiedergli di tornare a dirigere in concerto una sua composizione, ed al quale continua a dire di no.
Attorno a loro due ruota tutta una serie di personaggi: un obeso che ricorda fin troppo esplicitamente Maradona (con un gigantesco Karl Marx tatuato sulla schiena al posto di Che Guevara sul braccio) che si prodiga in un palleggio con una palla da tennis. L’attore Jimmy Tree (Paul Dano) impegnato a prepararsi per la parte che reciterà nel suo prossimo film il quale è rammaricato per essere ricordato dal pubblico unicamente per il suo ruolo di Mister Q in una saga di fantascienza hollywoodiana. Mădălina Diana Ghenea (suo è il sedere in primo piano nella locandina ufficiale del film) che interpreta una Miss Universo non convenzionale la quale si mostra in tutta la sua nudità ai due protagonisti i quali esclamano semplicemente «Dio!».
Ci si aspettava da Sorrentino un film che trattasse della vecchiaia, un tema a lui da sempre caro. Visto che ha sempre raccontato, nel corso della sua filmografia, di vecchi, oltre che sul “viale del tramonto” sia cronologico che lavorativo. Lo stesso feeling con il “più vecchio” Servillo rispecchia “l’inattualità” del regista che sembra avere avuto differenti riferimenti culturali rispetto ai registi, e non solo, della sua generazione (tanto per fare un nome Muccino, il cui unico tema nei suoi film sono i problemi di cuore dei suoi coetanei). Lo stesso Sean Penn appartiene alla generazione precedente, mentre Giacomo Rizzo addirittura a due. Sorrentino ha infatti poco in comune con la sua generazione. Lui ama la generazione precedente, quella dei suoi genitori. E su questo ci ha costruito un’intera filmografia.

Da segnalare, fra i vari pregi tecnici, che il film si avvale di un’ottima fotografia di Luca Bigazzi.
Anche se in buona sostanza bisognerebbe informare Sorrentino che non bastano una buona regia, una buona fotografia ed ottime performance degli attori per fare un buon film.
Jean-Luc Godard sosteneva che «les travallings sont affaire de morale» (i movimenti di macchina sono questione di morale). E come scrive ancora Fornara: «Costruire la messinscena, muovere la macchina da presa, così come impiegare ogni altro segno del cinema, uno piuttosto che un altro, e poi usarlo in un modo piuttosto che in un altro, è questione di morale: cioè di scelte». Sorrentino dà l’idea di non sapere assolutamente cosa fare in Youth. Non c’è una metafisica dietro i suoi movimenti o i suoi “sguardi fissi” (piuttosto radi, in verità!). C’è solo questa virtuosa, ma sterile, regia che cerca in ogni modo di mostrare i suoi muscoli per farsi ammirare! Emblematica in questo senso la sequenza del “concerto di mucche e campanacci”.
Ma la cosa più snervante del film è la sceneggiatura (e la scrittura è un elemento sul quale Sorrentino non ha mai zoppicato). I dialoghi sono zeppi di battute che vorrebbero essere ad effetto ma che si rivelano poi nient’altro che banalità da quattro soldi. Da Baci Perugina. Che non fa altro che collocarlo in una medietà culturale che finisce per sbalordire soltanto i “mediamente colti”.
Il film procede per accumulazioni senza arrivare a nulla di concreto. C’è solo Sorrentino che precipita su sé stesso!
Il quale è ormai, si spera non irrimediabilmente, schiavo del suo formalismo. Si spera che cambi registro perché ha dimostrato che dà il meglio nelle “piccole” produzioni nazionali e soprattutto quando ha accanto a sé il suo attore feticcio Toni Servillo.
Sarà poi un caso che in Youth ha truccato Michael Caine uguale a Toni Servillo?

La trama di The Young Pope sembra essere quella di un’opera spuria in relazione alla sua filmografia in quanto lo stesso titolo suggerisce che il protagonista è un “giovane”.
Cosa aspettarci, quindi, dalla nuova prove Internazionale di Paolo Sorrentino?  Fino ad ora questa inclinazione all’internazionalizzazione del suo cinema possa sembra lo abbia allontanato da quella che è stata la sua iniziale e migliore vena: cioè le scorribande dentro l’Italia misera, sporca, oscura e piagata.
L’esperienza precedente ci suggerisce che l’esperimento potrebbe essere negativo, ma una delle maggiori virtù del regista è quella di stupire. In questo caso, poi, si trova a confrontarsi per la prima volta con il mezzo televisivo al quale c’è bisogno di un approccio del tutto diverso, quindi… Staremo a vedere e speriamo bene.
In bocca al lupo, Paolo!

Alessio Cacciapuoti

Articolo precedenteIl labirinto del silenzio
Articolo successivoFish & Chips International Erotic Film Festival 2016: presentazione

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

4 + dieci =