Matteo Rovere fa il record della pista
All’emergente Matteo Rovere avevamo riconosciuto, sin dai primi cortometraggi (vedi ad esempio l’ambizioso Sulla riva del lago, realizzato nel 2004 e da noi visionato al MArteLive), una certa dimestichezza con la macchina da presa, che però quasi mai si era saputa tradurre in una altrettanto brillante gestione del materiale narrativo. Tale disagio s’era affermato persino di più, da parte nostra, di fronte a quel lungometraggio d’esordio, Un gioco da ragazze (2008), che ci era parso modaiolo nelle tematiche, insipido nella costruzione dei personaggi e fin troppo compiaciuto, per non dire furbetto, a livello stilistico. Ma con questo suo terzo lungometraggio la musica è completamente cambiata. Anche perché si è aggiunto il rombo dei motori. E visto che Veloce come il vento è (tra le altre cose) una bella storia di riscatto personale, lo stesso riscatto registico di Matteo Rovere può dirsi compiuto.
Il film molto liberamente si ispira alla vera storia di Antonio Capone, talentuoso ex pilota di rally che, lasciata l’attività agonistica negli anni ‘90, accettò di mettere la sua esperienza al servizio di una giovane donna affacciatasi da poco al mondo delle corse. Ma nel mentre il campioncino di una volta, preda della più completa instabilità emotiva, stava già scivolando nel tunnel della droga, il che avrebbe segnato pesantemente la sua esistenza. La premessa si arricchisce di pathos se si pensa al fatto che sia stato proprio Antonio Dentini detto Tonino, formidabile meccanico impegnato per anni nel circuito rallystico, e deceduto di recente, a raccontare questa vicenda al regista.
Ebbene, nella ricostruzione romanzata e resa così adrenalinica da Matteo Rovere i cardini della narrazione, in qualche misura, sono rimasti loro, ovvero gli equivalenti dei personaggi reali. C’è una ragazzina di talento, lanciata in questo caso nel campionato GT, la cui promettente carriera per una serie di ragioni rischierebbe di saltare assieme a ciò che resta della propria famiglia, se sul più bello un briciolo di coscienza non cominciasse a riaffiorare nel fratello, ex campione chiamato un tempo il “ballerino” per la sua facilità di guida, ma che nel corso degli anni si era allontanato da casa diventando un tossico come tanti. E tra i vari personaggi che interagiscono coi due fratelli, assieme a un fratellino più piccolo dall’aria costantemente triste, spaesata, c’è persino il fedele meccanico della scuderia di famiglia, Tonino, praticamente nelle vesti di “angelo custode” e con ogni evidenza alter ego del già citato Antonio Dentini.
Se Tonino ha i lineamenti schietti e rugosi del bravo Paolo Graziosi, alla coppia di protagonisti va tutta la nostra ammirazione. Da un lato la giovanissima e grintosa Matilda De Angelis, nell’interpretare con piglio da Amazzone la pilota di auto da corsa Giulia De Martino, ha saputo già guadagnarsi, non senza qualche merito, il generoso e simpatico appellativo di Jennifer Lawrence italiana. Ma è Stefano Accorsi nei panni del fratello Loris a stupire più di tutti. Era praticamente dai tempi in cui impersonò il detenuto anarchico Horst Fantazzini in Ormai è fatta di Enzo Monteleone, ovvero dai primi anni della sua carriera, che Accorsi non ci sembrava aderire a un personaggio con tale naturalezza. Può tranquillamente essere che la natura così sopra le righe di Loris lo abbia aiutato, viste le attitudini acquisite col tempo dall’attore. Se però in altre occasioni era il lato più deteriore, bozzettistico, persino macchiettistico ad emergere, qui la stravaganza si sposa con un mix di malinconia, ruvidezza e sostanziale umanità che colpisce direttamente al cuore.
Il dato estremamente positivo, quindi, è che Matteo Rovere in Veloce come il vento da un lato ha saputo confermare le capacità già affiorate persino nei lavori cinematografici meno centrati, come per esempio quell’interesse per l’azione, che qui si riflette nelle spettacolari sequenze in strada, siano esse riferite alle competizioni in pista come anche agli inseguimenti più “sporchi” e irregolari di cui l’irrequieto Loris si rende protagonista in città; ma dall’altro il cineasta ha saputo sfruttare al meglio le potenzialità della storia, dando vita finalmente a un racconto di formazione maturo, compiuto, avvincente, che occhieggia al classico cinema hollywoodiano di ambientazione sportiva trasformandolo in una crepuscolare favola di provincia italiana, dove anche le espressioni gergali e dialettali lavorano bene nel colorire i dialoghi. Questa volta il “giro più veloce” l’ha fatto Matteo Rovere, non vi è alcun dubbio.
Stefano Coccia