Home In sala Archivio in sala Tesnota

Tesnota

65
0
VOTO: 8

Costi quel che costi

Sulla scia dei consensi, dei riconoscimenti e del passaparola positivo successivi alle presentazioni in quel di Cannes 2017 (premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard) e San Sebastián, Closeness (Tesnota) è approdato e lasciato il segno anche alla 35esima edizione del Torino Film Festival nella sezione non competitiva Festa Mobile.
Il fatto che a dirigerlo sia stato un ex allievo di Alexander Sokurov all’Università della Repubblica Cabardino-Balcaria (dove si è formata anche un’altra promettente cineasta come Kira Kovalenko, della quale abbiamo apprezzato Sofichka alla 53esima Mostra di Pesaro) di nome Kantemir Balagov, del resto, ne certificava già sulla carta le qualità generali, lo spessore drammaturgico e la maturità formale. Tutte caratteristiche che puntualmente ritroveremo nella scrittura e nella messa in quadro una volta terminata la visione. In tal senso, l’esordio del ventiseienne regista russo ha nel rigore la linfa vitale e il motore portante tanto del modo di raccontare quanto di quello di mostrare. Un rigore, il suo e della sua opera prima, che non abbiamo dubbi nell’attribuire agli insegnamenti impartiti da un maestro come Sokurov nel corso degli studi. Tuttavia, riteniamo che Balagov non si sia ridotto ad andare sul sicuro replicando più o meno fedelmente tali insegnamenti, ma abbia messo del suo su entrambi i fronti. Il talento e la maturità dimostrati sul campo ne sono la dimostrazione tangibile, perché poi a parlare sono i fatti, in questo caso lo schermo, e se non hai delle qualità ciò che hai appreso rimane solo un accumulo di appunti impressi su dei fogli. Ora Balagov li ha assimilati, messi in pratica e personalizzati secondo le proprie esigenze e capacità, per poi metterli a disposizione dell’operazione di turno.
Dal punto di vista della scrittura troviamo, infatti, una compattezza e una misura nel raccontare, ma anche nel disegnare e delineare le parabole dei singoli personaggi. Quella del giovane cineasta russo è una scrittura asciutta ed essenziale, che guarda con estrema attenzione sia alla credibilità e al realismo delle dinamiche che alle emozioni che le stesse dinamiche fanno scaturire. Nonostante le basse temperature che si percepiscono sullo schermo, al contrario, in Closeness le tante emozioni che scaturiscono dai conflitti interni ed esterni alla famiglia protagonista non si cristallizzano. E per fare in modo che si materializzino con tanta forza l’autore punta tutti sui personaggi e sui dialoghi, costruiti con grandissima cura.
Siamo nel 1998, a Nalchik, nel Caucaso del Nord. La ventiquattrenne Ilana lavora nel garage di suo padre per aiutarlo a sbarcare il lunario. Una sera, la sua famiglia e gli amici si riuniscono per festeggiare il fidanzamento del fratello minore, David. Più tardi nella notte, la giovane coppia viene rapita e segue una richiesta di riscatto. Per questa compatta enclave ebraica coinvolgere la polizia è fuori discussione. Come farà la famiglia a procurarsi i soldi per salvare David? Ciascuno a modo suo, Ilana e i genitori non si tireranno indietro, quali che siano i rischi cui andranno incontro… Conflitti etnici e dramma privato si mescolano qui senza soluzione di continuità in un film che non può lasciare indifferenti, perché capace di toccare le diverse corde del cuore e di punzecchiare con non pochi spunti di riflessione lo spettatore. E la mete torna per analogie tanto a Enclave di Goran Radovanović quanto a Sole alto di Dalibor Matanić. In entrambi e per motivi diversi, alla pari del film di Balagov, le ragioni del cuore si dovevano giocoforza scontrare con le ostilità, gli ostacoli e gli orrori del quotidiano. L’efficacia nel sapere trasferire e mescolare, senza che l’uno prevalga sull’altro, i due piani drammaturgici (privato e pubblico, familiare e storico), rappresenta il vero punto di forza della pellicola.
Il tramite attraverso il quale il tutto prende forma e sostanza sullo schermo è, come già accennato, il rigore che il regista russo mette nella regia. Il suo è uno stile asciutto, chirurgico ed essenziale, fatto di quadri fissi alternati a movimenti della macchina da presa sempre funzionali e al servizio del racconto e delle figure presenti di volta in volta nell’immagine, che ne dettano in tutto e per tutto i ritmi. Pennellate secche, queste, con le quali l’autore compone il ritratto con mascherino a 1.37 : 1 dei luoghi e delle figure che li popolano, qui meravigliosamente interpretate da un gruppo di attori (su tutti una bravissima e intensa Darya Zhovnar nei panni non semplici di Ilana) che rappresentano l’altro valore aggiunto dell’opera.

Francesco Del Grosso

Articolo precedenteCineuropa Compostela 2017: bilancio
Articolo successivoLes affamés

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

tre × due =