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Enclave

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VOTO: 7

Stiamo in campana

Ci sono registi che con i propri film provano a dare delle risposte, altri che alle risposte preferiscono le domande. A questa categoria appartiene senza ombra di dubbio Goran Radovanović, autore di Enclave, che arriva in concorso alla 34esima edizione del Bergamo Film Meeting dove si è aggiudicato il premio per il miglior film, dopo aver rappresentato la Serbia nella corsa alla statuetta all’ultima notte degli Oscar ed essersi aggiudicato il premio del pubblico al Festival di Mosca e la menzione speciale della giuria all’International Film Festival of India. Nei novanta minuti circa a disposizione della sua opera seconda dopo The Ambulance del 2009, Radovanović si interroga sulla possibilità di una coesistenza pacifica tra la comunità serba e quella albanese in una terra come il Kosovo, caratterizzata dalla presenza di enclavi, ossia isole remote della minoranza cristiana incastonate all’interno di quartieri e villaggi popolati da maggioranze mussulmane. Un quesito, questo, estremamente complesso, sul quale il cinema e i suoi esponenti hanno deciso di non soffermarsi, scegliendo di puntare gli obiettivi delle macchine da presa sul conflitto bosniaco e sulle sue drammatiche conseguenze (da La vita è un miracolo a No Man’s Land, da Snow a The Hunting Party, passando per Resolution 819, Nella terra del sangue e del miele e Il segreto di Esma). Basterebbe questo a sottolineare l’importanza di un film come Enclave, al di là dei meriti e dei demeriti che possono emergere dalla sua visione.
Il regista riavvolge il nastro del tempo sino al 2004, cinque anni dopo una guerra che ha lasciato morte e devastazione. Nenad è un bambino serbo, introverso e sensibile, che vive con il padre e il nonno malato in un villaggio nel nord del Kosovo, una piccola enclave cristiana protetta dalle truppe di pace del KFOR (Kosovo Force) delle Nazioni Unite. Nenad va a scuola accompagnato dai soldati con il carrarmato, ed è l’unico allievo, preso in giro dagli altri bambini kosovari albanesi interessati solo a giocare a pallone. Uno di loro, Bashkim, nutre una particolare avversione nei confronti dei serbi, che ritiene responsabili della morte del padre. Un giorno, mentre al villaggio si celebra un matrimonio, ma anche il funerale del nonno di Nenad, i due bambini si ritrovano faccia a faccia in uno scontro involontario e potenzialmente tragico.
Radovanović firma un classico romanzo di formazione su sfondo post-bellico, che mette al centro del racconto personaggi e temi universalmente codificati, ossia di facile lettura e capaci di fare immediatamente presa sulle sinapsi e sulle emozioni di un pubblico vasto. Per far questo si appoggia a un protagonista adolescente chiamato a misurarsi con le difficoltà di una vita vissuta in una terra difficile e martoriata che non è e non sarà mai la sua, con lo scontro/incontro etnico e religioso, con un conflitto generazionale con un padre-padrone, con l’elaborazione di un lutto e con un’amicizia apparentemente impossibile. Pur richiamando schemi e dinamiche familiari alle platee generaliste, il cineasta serbo ci tiene però a preservare una certa dose di autorialità che emerge in maniera cristallina, senza vorticosi giri di parole, sia nella scrittura che nella sua messa in quadro.
Da una parte troviamo una narrazione lineare e scorrevole, nella quale spiccano momenti di forte intensità e anche di grande tensione (il ritorno a casa di Milica, la sassaiola contro il pullman, il faccia a faccia tra Nenad e Bashkim tra le rovine della chiesa bombardata), appesantita solo in alcuni frangenti da evitabili digressioni che ne rallentano lo sviluppo soprattutto nella parte centrale. Quest’ultimo è forse il vero tallone d’Achille di un ingranaggio che altrimenti avrebbe funzionato a meraviglia. Ciononostante il film appassiona e non annoia, anche grazie a uno script dal quale traspare un sincero e mai morboso amore nei confronti dei personaggi e delle rispettive sorti, a cominciare da quella del giovane protagonista (il promettente Filip Subarić). A conti fatti la morale non manca e si palesa, ma in Enclave non è fine a se stessa, al contrario appare onesta ed epurata da quella stucchevole melassa buonista che caratterizza gli epiloghi di moltissime operazioni analoghe.
Sul piano visivo, invece, il notevole senso dell’inquadratura misto al rigore formale denotano una grandissima maturità registica, che appartiene solo a coloro che sanno come e dove mettere la macchina da presa, perché ne conoscono i meccanismi, il linguaggio e le potenzialità. Radovanović è uno di questi e non è un caso che uno degli elementi di forza di questa pellicola sia proprio la regia.

Francesco Del Grosso 

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