La memoria persistente
Dopo essersi formata alla Kabardino-Balkarian State University sotto la guida di un maestro del calibro di Aleksandr Sokurov, Kira Kovalenko ha poi esordito nel 2016 con Sofichka, trasposizione cinematografica della novella omonima del compianto Fazil’ Iskander, presentata in anteprima italiana alla 53esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro nella sezione Sguardi Russi. Ed è lo stesso Sokurov, al termine del corso accademico da lui tenuto, ad aver segnalato alla sua ex allieva il libro dello scrittore caucasico, scomparso a una manciata di mesi di distanza (il 31 luglio) della prima apparizione pubblica della pellicola della Kovalenko al Tallinn Black Nights Film Festival nel novembre 2016.
Sofichka racconta la vita degli abitanti di una località di montagna in Abkhazia. La vicenda si svolge prima, durante e dopo la Grande Guerra Patriottica. Gli avvenimenti storici globali sono, tuttavia, solo uno sfondo sul quale i personaggi principali vivono le proprie vite. L’intreccio, inizialmente non lineare, pian piano si trasforma in un quadro completo della vita dei protagonisti. Il risultato è un affresco storico che ha cercato di assecondare la natura primigenia e il respiro della grande letteratura sovietica, con tutti i pro e i contro del caso quando ci si avventura in un adattamento dalla carta allo schermo. La trasposizione, infatti, ne trae beneficio dal punto di vista degli intrecci e del disegno dei personaggi, meno da quello del racconto nel suo complesso, oggetto inevitabile di una serie di fisiologiche e inevitabili rinunce, utili a garantire allo script lo stretto necessario. L’effetto più evidente del passaggio è un ritmo accelerato degli eventi, davvero inconsueto per questo genere di pellicola, che personalmente non ci è dispiaciuto, amplificato da un palleggio continuo tra i due piani temporali (passato e presente) che finiscono sempre con l’intersecarsi. Ciò comporta una soglia dell’attenzione molto alta da parte dello spettatore, che di conseguenza non può perdersi nemmeno un tassello del racconto. Pena il non completamento del mosaico.
Sofichka è un film sul perdono e sulla forza indissolubile dei legami sentimentali e familiari, ma soprattutto un film sulla memoria persistente, quella che resta impressa nei luoghi e negli spazi dell’anima anche quando il tempo sembra e potrebbe aver cancellato tutto. E la mente torna per forza di cose al recente Land of the Gods – Dev Bhoomi di Goran Paskaljevic. Nella pellicola del cineasta serbo, fresca vincitrice della sezione Panorama Internazionale del Bif&st 2017, lo spettatore si ritrovava al seguito di Rahul, un anziano che ritorna nel suo villaggio sull’Himalaya, provocando lo sconcerto tra i suoi concittadini, che non gli hanno mai perdonato gli errori del passato. Il ritorno al villaggio d’origine dopo moltissimi anni è anche il destino che spetta al personaggio principale dell’opera prima della Kovalenko, dove trovano spazio il dramma, il melodramma e l’odissea umana, a cominciare proprio da quella di una donna di nome Sofichka, la cui vita fa da filo conduttore della narrazione. È lei il baricentro su e intorno al quale lo script dirama le sue stratificazioni drammaturgiche. Senza di lei il resto non esisterebbe e il castello di carta crollerebbe, per cui su questo personaggio si riversa tutto il peso della storia e del progetto in generale. Peso che ricade sulle due bravissime interpreti Lana Basarija e Ciala Inapšba, chiamate a calarsi nei panni di Sofichka nelle due stagione esistenziali della sua vita. Da segnalare la fotografia di Ajdar Jamilov.
Francesco Del Grosso