Il tempo per dire addio
Nel (non troppo) lontano 2015, sugli schermi veneziani veniva ufficialmente presentato al mondo il giovane cineasta Piero Messina, il quale, con il suo L’attesa, se, da un lato, ha reso entusiasta buona parte del pubblico lidense, dall’altro ha fatto inevitabilmente pensare a una tentata emulazione del grande Krzysztof Kieslowski e, nello specifico, del suo Tre Colori – Film Blu (1993). E non soltanto per le tematiche trattate o per Juliette Binoche nel ruolo della protagonista. A visionare, dunque, alla luce di ciò, Another End, il suo secondo lungometraggio per il cinema, presentato in concorso alla 74° edizione del Festival di Berlino, verrebbe, dunque, spontanea una domanda: Piero Messina riuscirà mai a mettere in scena qualcosa che sia totalmente farina del suo sacco o, comunque, a non rendere così evidenti le influenze da parte di altri registi o lungometraggi?
Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, infatti, ci rendiamo conto di quando la storia messa in scena in Another End ci trasmetta immediatamente una forte sensazione di déjà vu. Qui, infatti, vengono raccontate per immagini le vicende di Sal (impersonato da Gael García Bernal), il quale non riesce a superare il lutto di sua moglie, morta prematuramente in un incidente stradale. Eppure, un modo c’è per rendere meno dolorosa l’elaborazione una perdita così improvvisa. E a tal scopo può venirgli in aiuto proprio sua sorella Ebe (Bérénice Bejo), la quale lavora per una misteriosa azienda che si occupa di mandare a casa della gente degli “host”, persone volontarie che decidono di farsi impiantare sensazioni, personalità e ricordi dei defunti, al fine di permettere ai loro cari, attraverso una serie di sessioni, di prendersi il tempo necessario per dire loro addio. Quali conseguenze e quali complicazioni può avere, però, una simile operazione?
Trovare un sostituto per una persona che non c’è più, al fine di rendere più sopportabile la perdita. Cosa ci ricorda ciò? Impossibile non pensare all’interessante Alps, diretto da Yorgos Lanthimos nel 2011. Vivere determinate esperienze e cancellare il ricordo di ciò che è stato nel momento in cui si decide di porre fine alle suddette sessioni. Anche questo, se vogliamo, in senso ampio potrebbe far pensare a qualcosa di già realizzato e, nello specifico, all’ottimo Se mi lasci ti cancello (Michel Gondry, 2004). Se a tutto ciò aggiungiamo un’estetica laccatissima con inquadrature studiate fin nel minimo dettaglio, che tanto ricordano il cinema di Paolo Sorrentino (a cui Messina stesso ha fatto per molto tempo da aiuto regista), ci rendiamo conto di come il cineasta di Caltagirone non riesca quasi a camminare con le proprie gambe.
Another End indubbiamente si lascia seguire, sebbene presenti all’interno della sceneggiatura stessa non pochi buchi e forzature. La storia del protagonista da un lato appassiona, anche se, dall’altro, fatta eccezione per un tanto buono quanto necessario twist, con tanti, troppi finali al proprio interno fa sì che anche lo spettatore più entusiasta finisca per arrivare al termine della visione implorando pietà. Piero Messina ha fatto indubbiamente del proprio meglio, ma è come se gli mancasse sempre qualcosa per poter finalmente “decollare”. E così, nonostante gli evidenti sforzi e il desiderio di dar vita a qualcosa di maestoso e rivoluzionario, questo suo Another End si è purtroppo rivelato uno del film più deboli del concorso berlinese. Almeno per quanto riguarda i primi tre giorni di festival, s’intende.
Marina Pavido