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Alps

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VOTO: 7.5

Siamo ciò che fingiamo (di essere)

La sensazione che proveranno i cinefili che s’imbatteranno nell’uscita in sala – c’è da temere molto poche – di Alps, sarà quella di salire a bordo di una macchina del tempo e tornare indietro di un lustro. Più precisamente al 2011, allorquando il film di Yorgos Lanthimos veniva presentato in concorso alla sessantottesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, aggiudicandosi peraltro l’Osella d’Oro per la migliore sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso regista con il fido Efthymis Filippou.
Alps (Alpeis in originale) è infatti un Lanthimos a denominazione d’origine controllata, cioè “duro e puro”. L’ultimo che il regista ha girato nella sua Grecia decadente e perciò senza pietà, metaforicamente parlando, verso se stesso ed il proprio pubblico. Alps rappresenta in fondo lo zenith inarrivabile del cinema di Lanthimos, persino oltre i pregevoli Kinetta (2005) e Kynodontas (2009). Un film-manifesto scomodo e ostico perché scaraventa da subito, praticamente in medias res, lo spettatore in un caos dove risulta impossibile scindere la realtà effettiva dalla finzione più esasperata, quella che spesso non fa altro che sfociare nell’ipocrisia assoluta. L’intuizione di Lanthimos, pur sviluppata in un complesso ed infinito gioco di simbolici specchi, è quasi banale nella propria semplicità: un gruppo di persone non specificate avviano un impresa del tutto particolare, quella di far si che ognuno di loro sia in grado di sostituire una persona defunta nell’ambito privato delle persone che soffrono per la perdita. Si fanno chiamare appunto Alpi – con ognuno di loro a scegliere una singola cima – poiché trattasi di una catena montuosa insostituibile di per sé ma che potrebbe prendere il posto di qualsiasi altra. Inutile sottolineare come già da tali coordinate s’intuisca che con Alps ci troviamo nell’ambito di un purissimo esercizio sia psicologico che di stile in grado di affascinare e respingere in modo altrettanto equivalente. I personaggi sono nudi di fronte al castello delle loro menzogne, ma anche lo spettatore è destinato a sentirsi tale poiché privato degli strumenti necessari all’adeguato distacco mentale, quello che serve a rifugiarsi nella classica espressione “è solo un film”. In Alps quest’operazione è stata e sarà di impossibile effettuazione proprio per i motivi di cui sopra, ovvero l’impossibilità di separare il vero dal falso. Su ogni azione compiuta nell’ambito del film cala la “mannaia” del dubbio; ed è questo che rende Alps, a nostro parere, un rebus del tutto ammirevole nella sua irrisolvibilità assoluta. E, ancora, nella disperazione quasi nichilista che ha il coraggio di mettere in scena.
Si potrebbe discutere per ore sulle direzioni che Alps prende a livello ipertestuale: c’è l’impietoso svelamento dell’ipocrisia borghese che lo rende un’opera dai forti accenti politici, in pratica un implacabile j’accuse verso una classe dirigente occulta che tornerà di angosciante attualità di lì a poco nelle cronache (reali) del paese d’origine di Lanthimos. E in questo senso il grado di parentela con il successivo e “internazionale” The Lobster, con le sue distopie dittatoriali, è di sicuro evidente. Ci sarebbe anche una lettura squisitamente economica, sulle possibilità paradossali di “fare impresa” in un paese perennemente sull’orlo della catastrofe nonché tenuto in vita in modo artificioso dall’Europa germanocentrica. C’è tutto questo e molto di più. Ma più che altro, nella visione contemporanea che bissa quella di cinque anni prima, resta nella memoria la schermaglia surreale tra alcuni personaggi sulla sorte della stella musicale Prince. Una ragazza del gruppo, in tutta evidenza una fan, avrebbe desiderato prenderne il posto, convinta della sua morte. Altri negavano con vigore, affermando l’esistenza in vita dell’artista di Minneapolis.
Allora la domanda diventa improvvisamente un’altra: quale significato può assumere, oggi, un lungometraggio lungimirante in ogni senso immaginabile come Alps?

Daniele De Angelis

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