Home AltroCinema The Korean from Seoul

The Korean from Seoul

143
0
VOTO: 7,5

Import-Export

Certi amori (cinematografici) fanno giri immensi e poi ritornano. Nel 2023, completando le selezioni per la seconda edizione di Indiecinema Film Festival, ci eravamo imbattuti in un’opera cinematografica decisamente stramba, originale e per certi versi inclassificabile, The Korean from Seoul di Steven Whatmough. Pur essendo arrivata in selezione sprovvista di sottotitoli, con in più sul groppone dialoghi e segmenti narrativi di tale eccentricità da risultare poco fruibili, in versione originale, ne avevamo apprezzato la filosofia di fondo, l’autarchica e genuina artigianalità della messa in scena, lo spirito beffardamente no-global e quegli stralci di ironia nei confronti della società capitalista, percepibili in ogni caso all’interno di un flusso narrativo così frammentario e incostante, al punto di volerla collocare a tutti i costi tra i lungometraggi di finzione in concorso. Purtroppo i contatti tra noi e l’Australia, paese di provenienza del film, non si sono sbloccati subito. E così in mancanza di sottotitoli non è stato possibile inserirlo nell’iniziale palinsesto degli eventi dal vivo inerenti al festival. Peccato. Ma in seguito, grazie anche all’interessamento di Fabio Del Greco, patron della piattaforma Indiecinema, sono sopraggiunti i sottotitoli in italiano generando per il bizzarro The Korean from Seoul uno spazio di visibilità anche da noi, almeno per quanto riguarda lo streaming.
La speranza, naturalmente, è che pur fuori tempo massimo rispetto alla seconda edizione del festival, conclusasi diversi mesi fa, diventi a breve possibile proiettare il film anche sul grande schermo. Sarebbe una proposta assai stuzzicante, per il pubblico in sala, considerando che già noi beneficiando ora di una piena comprensione dello script ne abbiamo ancor più apprezzato quella carica eversiva, quella vena anarcoide e satirica, già colte durante il primo, aurorale approccio all’opera.

Confrontarsi con The Korean from Seoul vuol dire innanzitutto lanciarsi alla scoperta di un giovane film-maker australiano, Steven Whatmough, che al pari del primissimo Nanni Moretti può tranquillamente affermare: “Io sono un autarchico”. Difatti risulta qui contemporaneamente regista, sceneggiatore, interprete principale, montatore e autore delle musiche, con queste ultime orientate ad accentuare la chiave straniante e grottesca di un’opera cinematografica sghemba, paradossale, che si nutre anche di quelle ritmiche ossessive, di qualche scomposta schitarrata in strada e di sonorità che sfiorano la cacofonia.
Scelta singolare ed ulteriore indizio di uno straniamento profondo è pure il fatto che Steven Whatmough incarni in scena il protagonista, regali cioè i propri sibillini tratti somatici a un improbabile (in quanto etnicamente poco plausibile) coreano appena piombato da Seoul a Melbourne, per essere assunto come responsabile della sicurezza da una fantomatica azienda specializzata in esportazioni, il cui bislacco organigramma appare da subito degno della sua incongrua presenza.
Di simmetrico vi è semmai il fatto che il giovane Steven Whatmough, nativo di una minuscola città dell’Australia che si chiama Swan Hill, si sia poi spostato in quella che a confronto è già una metropoli per portare avanti i suoi studi, relativi a Media Arts, in un’università qualificata come il Royal Melbourne Institute of Technology. A questo punto, per decifrare meglio lo spirito che anima questo suo lungometraggio, partiamo proprio da alcune dichiarazioni del cineasta: “Lo scopo del film è unire tra loro le manifestazioni fisiche del nichilismo e della produttività, al fine di aumentare la consapevolezza relativa ai cliché operativi più stereotipati in un modo che trascenda la pretenziosità o la parodia e offra una prospettiva illuminata sull’alcolismo, sulla violenza, sulla diversità e sulle imprese commerciali”.

Apparentemente un obiettivo oltremodo ambizioso, impegnativo. Da parte nostra però riteniamo che l’autore, ribaltando a proprio vantaggio l’evidente povertà del budget, abbia raggiunto brillantemente lo scopo realizzando per l’appunto non una scontata parodia, ma una dissacrante partitura cinematografica in grado di scardinare le cristallizzazioni più opache e scadenti della globalizzazione mettendone a nudo l’ipocrisia di fondo, sia attraverso dialoghi dotati di una sotterranea, sferzante ironia che nelle modalità stesse della messa in scena. Ovvero attraverso quei rapporti fisici e spaziali tra i protagonisti che arrivano quasi a lambire il “teatro dell’assurdo”, nelle relazioni concrete tra i dipendenti della società di esportazioni come pure in quelle irresistibili “animazioni aziendali”, negli spot pubblicitari inclini al nonsense e negli altrettanto surreali siparietti musicali.
Nel destrutturare sapientemente i meccanismi che regolano i rapporti all’interno dell’azienda, anzi, la natura sulfurea dei dialoghi (specie quando si irridono certi cliché sugli asiatici o si fa uscire allo scoperto qualche altra forma di chiusura mentale presente nella popolazione australiana) o il taglio surreale di determinate situazioni (dalle farsesche riunioni aziendali sulla vigilanza interna allo stralunato combattimento sul tetto del convoglio ferroviario) ci hanno fatto pensare, in piccolo, all’analogo affondo anticapitalista espresso in quella che resta per noi una delle pellicole più riuscite di Lars von Trier, Il grande capo (2006). Nomenclature beffarde, riprese da videocamere di sorveglianza a dir poco balorde, uffici dalla scarsissima funzionalità pratica in cui abbondano solo scaffali pieni di bottiglie di Whisky e un utilizzo del green screen alquanto stravagante definiscono poco a poco l’estetica del film. L’apoteosi viene raggiunta, probabilmente, all’apparire di quei dipendenti di una ditta di traslochi, il cui operato desta sospetti a partire dal nome così “evocativo” stampato sulle loro divise: Schrödinger Budget Removals. Un’altra azienda le cui spese in bilancio appaiono e scompaiono in modo misterioso, evidentemente!

Si sprecano pertanto i momenti surreali, spiazzanti, tant’è che concordiamo anche con Fabio Del Greco nell’annotare quelle venature lynchane, da lui sintetizzate così al momento di introdurre il lungometraggio sulla piattaforma: “Questa insolito film australiano è pieno di personaggi eccentrici e situazioni piuttosto stranianti. Fin dall’inizio diventa chiaro che questo non è un film “normale”. I personaggi hanno strane conversazioni tra loro e il dialogo ricorda quello scritto da David Lynch.
Perciò, tra surrealismo e satira del sistema produttivo capitalistico, la poetica di The Korean from Seoul si definisce passo passo prendendo di petto il sistema, ma sempre con un tocco lieve e creativo.

Stefano Coccia

Articolo precedenteAnother End
Articolo successivoHors du temps

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

tredici − quattro =