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L’uomo che uccise Don Chisciotte

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VOTO: 7

Don Chisciotte è vivo e lotta con noi

Dopo 25 anni di traversie produttive, finalmente Terry Gilliam è riuscito a portare a termine il suo The Man Who Killed Don Quixote (nella fedele traduzione italiana L’uomo che uccise Don Chisciotte), presentato Fuori Concorso in chiusura al Festival di Cannes 2018, con lo strascico legale del produttore portoghese Paulo Branco. Forse uno dei film più maledetti degli ultimi tempi, con ben otto tentativi di realizzazione, le cui vicissitudini non possono non ricordare quelle di Orson Welles, uno dei registi che più ha dovuto lottare contro i mulini a vento dell’industria cinematografica, e che proprio su un altro adattamento del classico picaresco di Cervantes ha subito una delle più sonore disfatte. Terry Gilliam sembra consapevole di questo illustre precedente che richiama in alcuni momenti, nelle scritte murali con la parola ‘Don Quixote’, mentre Welles aveva inventato la pubblicità della birra dedicata al cavaliere.

Concepito inizialmente come una rilettura del romanzo di Cervantes secondo il modello di Un americano alla corte di Re Artù, con un uomo venuto dal futuro che prende il posto di Sancho Panza, il parto finale di The Man Who Killed Don Quixote riprende sì questo schema, della sostituzione dello scudiero, ma stratificandolo in una serie di giochi metacinematografici, nella consapevolezza esibita di aver fatto tesoro dei tanti anni di attese e tentativi a vuoto. È una scritta all’inizio del film, nel puro spirito di umorismo nonsense dei Monty Python, a giocarci, rivolta agli spettatori e scherzando sulla lunga attesa. La prima scena del film con Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, si rivela come la ripresa di un set cinematografico, di uno spot pubblicitario, secondo un gioco metafilmico più volte impiegato, da Effetto notte a Hollywood Party. Il regista Toby, interpretato da Adam Driver, attore somigliante a Johnny Depp che nei progetti iniziali avrebbe dovuto interpretare quel ruolo, aveva già realizzato un film dal titolo The Man Who Killed Don Quixote come ‘graduation film’ alla scuola di cinema. Lo fa vedere a una procace fanciulla mentre stanno facendo sesso, poco prima di essere scoperti dal marito. Tra i due film nel film, avviene il terzo, il film stesso di Terry Gilliam che vede Toby, il regista, alter ego di Gilliam, sprofondare nell’eterna storia di Cervantes, scambiato per Sancho Panza da un vecchio calzolaio pazzo che si crede Don Chisciotte. E da qui comincia il loro pregrinare nella campagna di Spagna, sempre interrotto da macchine da presa interne, a ricordarci che di un set si tratta. Se dal progetto era già stato tratto un film, il documentario Lost in La Mancha, da un non film, ovvero un film fallito, ora che il film è stato incredibilmente portato a termine, il regista gioca sull’idea del set eterno. La concezione metacinematografica suprema si cristallizza in una bellissima scena da caverna platonica, in una proiezione su un tendone dietro cui si trova Don Chisciotte, poi raggiunto dal regista, proiettandovi così la sua ombra. Ci sono poi anche parti del film in bianco e nero, insomma di gioco sul cinema si tratta.
In tutto questo meccanismo intricato di scatole cinesi di cinema, Terry Gilliam lavora su quello che era l’artificio principale del romanzo di Cervantes, cioè l’anacronismo. Così il territorio spagnolo dove è ambientata la vicenda presenta un paesaggio dominato dalle moderne pale eoliche, corrispettive dei mulini a vento, che contrastano con i villaggi medievali in cui i personaggi fanno sosta. E a ciò si aggiunge la presenza continua di telefoni, macchine. E le stesse macchine da presa che si usano sono cineprese, come se Gilliam volesse fermarsi allo spirito di quando avrebbe dovuto essere girato il film, nel 2000. È lo stesso Toby a dichiare all’inizio il suo rifiuto della CGI, ora imperante, richiamando a quel cinema che ancora poteva farne a meno. La CGI arriverà però nel finale, nel continuo ribaltamento realtà/sogno, mostrandoci finalmente i giganti, che sembrano veri perché quasi schiacciano il nostro eroe, che a quel punto scambierà Dulcinea per Sancho Panza. Deve averci riflettuto a lungo, Terry Gilliam, in tutto questo tempo. E la risposta che deve essersi dato non può che essere questa: già nella natura onirica del personaggio creato da Cervantes nel Seicento, aleggiava in prospettiva l’idea stessa di cinema.

Giampiero Raganelli

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