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La terra di Dio

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VOTO: 8

Leggi di Natura

L’approccio migliore per affrontare la tematica omosessuale nel cinema è sempre stata una e una soltanto: farlo in modo diretto, senza cercare compromessi. Ne è riprova questa encomiabile opera prima del regista inglese Francis Lee, intitolata, nemmeno troppo provocatoriamente, La terra di Dio (traduzione italiana dell’originale God’s Own Country). Un’opera davvero in grado di restare nella memoria, ben al di là dell’argomento trattato. Probabilmente perché esso è incastonato in una cornice naturalistica che rende il libero sfogo dei sensi qualcosa di assolutamente normale, a prescindere dall’orientamento sessuale in questione.
A regnare sovrana ne La terra di Dio è infatti Madre Natura, con le propria abbacinante bellezza ma anche la sua ferocia nel mostrarsi universo dove solamente le creature più forti sopravvivono. Nella fattoria della campagna inglese dove lavora il giovane Johnny Saxby, le cui tendenze omosessuali vengono esplicitate dopo pochi minuti assieme al suo carattere perennemente iracondo poiché insoddisfatto della vita condotta, arriva il rumeno Gheorghe, scelto dal padre di Johnny, Martin, per dare una mano nel lavoro a seguito dei gravi problemi di salute che lo hanno colpito. Dalla diffidenza razzista (Johnny chiama ripetutamente Gheorghe con il poco lusinghiero epiteto di “zingaro”) all’attrazione fisica tra i due giovani il passo è breve, anche perché il secondo si dimostra particolarmente in gamba nel gestire il lavoro nella fattoria. L’esplosione della passione è dunque raccontata da Lee – anche sceneggiatore del film – senza reticenze, donando successivamente al rapporto che si instaura tra i due la medesima complessità, come del tutto giusto, di un legame etero. Mentre le generazioni anteriori – padre e nonna di Johnny – osservano l’evolversi della situazione con la saggezza di chi non vuole giudicare, in un implicito confronto generazionale privo di metaforiche vittime sul campo. Le cose sono destinate a cambiare quando il padre di Johnny verrà colpito da un secondo ictus, che ne limiterà ulteriormente le possibilità fisiche.
La terra di Dio è il classico lungometraggio in cui il dipanarsi del plot conta piuttosto relativamente. Risultano al contrario ben più importanti altri fattori. Come la potenza delle immagini – la magnificenza dell’alba ammirata dai due giovani dopo il primo rapporto sessuale – ed un paesaggio che il regista riesce a farci osservare con sguardo differente seguendo lo stato d’animo cangiante del protagonista Johnny. Ciò che appariva in un primo momento brullo e monotono, a seguito della conoscenza carnale con Gheorghe assume sembianze completamente differenti, ad ulteriore testimonianza di come sia sempre l’essere umano a filtrare e rielaborare le prospettive del mondo. Ogni personaggio messo in scena ne La terra di Dio interagisce con gli altri e irrimediabilmente cambia. Accade così anche a Martin, sempre molto severo con il figlio, quando quest’ultimo si occupa di lui dopo il secondo attacco. Il suo grazie sussurrato suscita commozione per la veridicità assoluta del contesto. Un realismo colto da Francis Lee con una stupefacente facilità grazie anche alla performance degli interpreti, tutti strepitosi e disponibili a partire da Josh O’Connor (Johnny), passando per il “kenloachiano” Ian Hart (Martin) di Terra e Libertà, per chiudere con l’intensa Gemma Jones nella parte della nonna. Tasselli perfetti che vanno a comporre il mosaico di un’opera di grandissima potenza, sia nella forma che, soprattutto, nel contenuto. Perché La terra di Dio possiede il grandissimo pregio di raccontare la diversità sessuale senza mai scadere, nemmeno per un fotogramma, nel classico senso di colpa eterosessuale in versione “politically correct”. Ma anzi riesce a fare dell’asprezza la propria bandiera. Onore al merito.

Daniele De Angelis

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