Lo zoo è qui
Impossibile negare che con Split il buon M. Night Shyamalan partiva da un’indubbia posizione di vantaggio: fare peggio dello scult The Visit sarebbe stata infatti impresa superiore a qualsiasi possibilità terrena. Amenità a parte, Split è un lungometraggio che, se non altro, regala allo spettatore inconfondibili tracce dello Shyamalan migliore. Abbandonato il nefasto point of view dell’opera precedente, ecco tornare il nostro a quell’impostazione di regia classica in cui la macchina da presa diviene parte attiva del discorso cinematografico, attraverso un dialogo continuo tra campo e fuori campo, attese pregne di suspense ed esaltazioni degli spazi chiusi. Tutto ciò che, almeno in parte, aveva fatto accostare in passato la figura del cineasta di origine indiana nientemeno che a quella di Alfred Hitchcock proprio dal punto di vista dell’uso “ricercato” della grammatica filmica. E non solamente da parte degli ammiratori.
Senza spoilerare più del dovuto, trattandosi di thriller con ripetuti colpi di scena incorporati, Split detiene comunque sin da ora il record di messa in scena dello psicopatico maggiormente schizofrenico della storia del cinema, tanto da far apparire il Norman Bates di Psycho come un ragazzotto affetto da banale disturbo bipolare. Impossibile infatti contare le personalità differenti che albergano in lui. Così, dopo il rapimento da parte sua (o loro) di tre ragazze in età scolastica, la deflagrazione della follia sarà totale.
Tanto per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio diciamo subito che Shyamalan con Split ha realizzato un semplice e divertente film di genere, ben lontano da qualsiasi tentazione di riflessione “umanista” sulla soggettiva singolarità della pazzia umana. Probabilmente proprio quest’aspetto impedisce al film un tracollo irrimediabile verso le classiche sabbie mobili dell’opera affondata dalla stessa hybris del suo autore. Il quale comunque non riesce ancora una volta ad evitare quei difetti che da sempre affliggono il suo cinema, magari meglio mascherati in opere decisamente riuscite come il celeberrimo The Sixth Sense – Il sesto senso (1999) o l’ottimo Signs (2002), con tutta probabilità la vetta teorica del cinema di Shyamalan. Split soffre infatti di una dilatazione narrativa eccessiva – quasi due ore di durata che potevano essere tranquillamente ridotte – ma soprattutto di alcune incongruenze narrative imperdonabili per un thriller che avrebbe potuto e dovuto funzionare con la precisione di un cronometro svizzero: ad essere risucchiata nel buco nero di uno script ritenuto a torto elemento secondario dallo stesso regista è soprattutto la figura della dottoressa Fletcher, psicologa interpretata da Betty Buckley, presunta luminare del ramo che avrebbe teoricamente in cura il protagonista ma che finisce con il comportarsi in modo del tutto opposto a quello che i minimi rudimenti di deontologia professionale prevedrebbero. Ci sarebbe poi parecchio da discutere, per restare al personaggio (sarebbe forse meglio usare il plurale…) principale, sulla modulazione delle varie personalità cui dà vita un corretto ma non memorabile James McAvoy; tante, persino troppe, ma non sempre adeguatamente differenziate sia dalla performance attoriale che da uno script troppo concentrato sul contesto per curare il dettaglio. Molto più efficacemente delineato il personaggio femminile interpretato dall’ottima Anya Taylor-Joy già indimenticabile Thomasin nel recente The VVitch: la ricostruzione in flashback – modus operandi assai caro al regista – del suo passato carica di empatia la sua Casey, vittima niente affatto disposta al sacrificio tra le grinfie dell’orco. Tuttavia il vero punto di forza di Split risiede nel suo messaggio “astratto”, propugnatore di una visione del mondo permeata di un pessimismo al limite del nichilismo mai riscontrata in precedenza, almeno in questi termini, nel cinema di Shyamalan. Ogni sequenza non rappresenta altro che un’implacabile progressione verso quei territori dove l’orrore più puro – quello che alligna in alcune menti umane – si fonde con la realtà più atroce, innestando un corto circuito di angoscia da cui si fa fatica a liberarsi anche dopo la visione. Anche perché il twist finale – marchio di fabbrica del regista di The Village (2004), specificamente nelle sue opere di maggior rilievo – funziona in modo egregio ed il cameo dell’antico sodale Bruce Willis, in charo odor di Unbreakable (2000) sui titoli di coda, aggiunge inquietudine ad inquietudine. Fattori più che sufficienti per concedere a Split una chance di visione.
Daniele De Angelis