Sotto controllo totale
Un milione e settecento mila dollari; a tanto ammonta la somma versata da Oliver Stone e dal produttore Moritz Borman nelle casse delle rispettive case editrici di “The Snowden Files” di Luke Harding e “Time of the Octopus” di Anatoly Kucherena per acquistarne i diritti di sfruttamento cinematografico. Ai due libri, il regista statunitense ha attinto per dare forma e sostanza allo script firmato a quattro mani con Kieran Fitzgerald e della successiva trasposizione per il grande schermo, presentata in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival 2016 e nella selezione ufficiale dell’11esima edizione della Festa del Cinema di Roma, prima della sua distribuzione nelle sale nostrane con BIM il prossimo 1 dicembre.
Così dopo l’odissea del fondatore di WikiLeaks Julian Assange e del portavoce Daniel Domscheit-Berg, raccontata da Bill Condon ne Il quinto potere, anch’esso nato dalle pagine di due libri d’inchiesta (“Inside WikiLeaks” e “Wikileaks. La battaglia di Julian Assange contro il segreto di stato”), nemmeno quella di Edward Snowden è riuscita sfuggire ai tentacoli della Settima Arte. Ma mentre nel primo caso ci troviamo al cospetto di un capitolo dell’esistenza di due uomini chiamati a combattere una spietata e pericolosa guerra informatica, al contrario in Snowden, Oliver Stone trasforma in immagini e suoni una fetta importante della vita di Edward Snowden, il tecnico informatico della NSA che ha sottratto e diffuso tramite i più importanti quotidiani del mondo, informazioni riservate sulle attività illegali di intercettazione e controllo dei cittadini americani e non da parte delle agenzie di intelligence americane. L’anello di congiunzione tra le due storie è evidente e riguarda la diffusione di informazioni segrete e di una mole gigantesca di dati sensibili raccolti e occultati dagli Stati Uniti dall’11 settembre in poi, ma soprattutto lo scenario dove le rispettive lotte si sono consumate, ossia il cyber-spazio. Un tema e un campo di battaglia, questi, che sono stati ampiamente spiegati, con tanto di pioggia di tecnicismi, da Alex Gibney nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Zero Days. E non è il solo, poiché in circolazione, indipendentemente dalla latitudine, è possibile trovare un cospicuo numero di film e documentari che ne analizzano i diversi aspetti, applicazioni, implicazioni e conseguenze, a cominciare dalla violazione della privacy (Why I’m not on Facebook, Everything’s Under Control, Overhead, Eye in the Sky e il suo remake Cold Eyes) all’uso dei droni per scopi militari e non (Il diritto di uccidere o Good Kill). Il tutto dimostra la grande attenzione delle cinematografie mondiali su tutto ciò che riguarda i pericoli e l’uso distorto della rete e delle moderne tecnologie ad essa connesse.
Snowden è prima di tutto un biopic che narra le “gesta” dell’ex consulente informatico di NSA e CIA, incentrato su un lasso di tempo che va dal 2003 al 2013, ossia il decennio che comprende il periodo dell’addestramento sino alla pubblicazione dei documenti super segreti. Nel mezzo le diverse tappe della carriera del protagonista nelle basi situati in Georgia, a Tokyo e alle Hawaii. Stone ne trae uno spy-thriller 2.0 capace di offrire alla platea di turno momenti di forte tensione (uno su tutti la sottrazione dei file segreti e la fuga dal quartier generale), nella quale trova spazio come di consueto nel cinema del regista statunitense anche una macro-parentesi sentimentale, che in questo caso è la relazione tra Edward e la fotografa Lindsay Mills. Proprio questa macro-parentesi rappresenta il tallone d’Achille dello script e della sua trasposizione, perché causa di frequenti momenti di stallo che rallentano in maniera drastica il ritmo del racconto. Stone se ne serve per provare a dare una tridimensionalità al disegno del protagonista, ma senza ottenere gli esiti desiderati, perché a calamitare l’attenzione dello spettatore restano sempre e comunque le dinamiche che hanno fatto di Snowden il responsabile di quella che è stata definita la più grande violazione dei sistemi di sicurezza nella storia dei servizi segreti a stelle e strisce.
Ciò determina, per quanto ci riguarda, un netto cambio di fuoco, con il racconto della vita di Snowden che fa da apripista a un discorso più ampio, che il regista americano ha cercato, riuscendoci, di sviluppare all’interno dello script. Un discorso che l’autore riesce a rendere chiaro e alla portata di tutti, compresa quella fetta di pubblico che di sistemi informatici e dei suoi tecnicismi non conosce altro che l’ABC. Si tratta di una serie di domande provocatorie riguardo a quali libertà saremmo disposti a rinunciare per consentire ai nostri governi di proteggerci.
Per Stone, un film come Snowden rappresenta l’ennesima occasione per gettare tonnellate di fango contro la sua Nazione, mettendone in evidenza le nefandezze e il lati oscuri. Per farlo sceglie di prendere una posizione ben precisa al fianco del protagonista di turno, forse idealizzandolo un po’ troppo, senza mai fare riferimento ai suoi possibili scheletri nascosti nell’armadio, come hanno puntualmente messo in evidenza i colleghi e gli addetti ai lavori. Probabilmente è così, ma da parte di un regista come Stone, allergico alla coerenza e alle mezze misure, non possiamo aspettarci altro che questo. Tuttavia, il risultato non dispiace, nonostante i limiti che abbiamo evidenziato. Non sarà il miglior thriller della stagione e non ha alcuna speranza di diventarlo, ma anche grazie alla performance davanti la macchina da presa del sempre all’altezza Joseph Gordon-Levitt, due ore e passa di buon intrattenimento le riesce a offrire. Bisogna solo sapersi accontentare visti alcuni precedenti da dimenticare che portano la firma di Stone, in primis World Trade Center.
Francesco Del Grosso