Il prima e il dopo
Cinema autenticamente atemporale, nonché purtroppo desueto, quello che mette al metaforico centro della macchina da presa l’umanità dei personaggi piuttosto che altri, fastidiosi, orpelli. Uno dei massimi cantori di questo, solo apparente, minimalismo cinematografico è il cineasta newyorchese Kenneth Lonergan, molto parco nella realizzazione dei suoi lungometraggi – solo tre dal 2000 ad oggi – e tuttavia generosissimo nel girare opere in cui la regia fa di tutto per non farsi notare, a completo vantaggio di un certosino lavoro di evoluzione su personaggi che acquistano tridimensionalità inquadratura dopo inquadratura. Sino a suscitare, grazie alla massima spontaneità possibile del processo empatico, una contiguità quasi sorprendente con lo spettatore disposto ad entrare nelle suadenti cadenze dei suoi film.
Come sempre accaduto anche nelle precedenti opere – ricordiamole nel caso a qualcuno possa venire voglia di recuperarle: Conta su di me (2000) e Margaret (2011) – anche nel bellissimo Manchester by the Sea, presentato nella selezione ufficiale dell’undicesima Festa del Cinema di Roma dopo il suo passaggio al Toronto International Film Festival 2016, tutto si apre con un evento luttuoso capace di dare il via alle reazioni soggettivamente più disparate. Un confronto, quello con la morte, che evidentemente affascina in maniera particolare Lonergan, non tanto nell’esplorazione voyeuristica del dolore atto a generare commozione coatta, quanto nell’analizzare in una chiave antropologica i comportamenti di coloro che devono obbligatoriamente fare i conti con un mutamento sostanziale nell’ambito delle rispettive esistenze. Oltre a ciò il regista originario del Bronx divide sapientemente in due parti la cronologia narrativa, affidando ai numerosi flashback – inseriti peraltro con una notevolissima pertinenza al racconto del tempo cosiddetto presente – il compito di svelare quali segreti si portano dietro i vari protagonisti. E regalando così al pubblico la possibilità di una partecipazione attiva alla composizione del simbolico puzzle che spiega senza didascalismi di sorta determinate caratteristiche di personaggi sia di primo che di secondo piano.
Quasi attoniti si assiste allora ad un lungometraggio di finzione della durata di oltre due ore capace di farsi miracolosamente vita vissuta – attraverso la semplice essenzialità di una storia incentrata sulla scomparsa di un padre ancora giovane, il quale lascia la tutela del figlio adolescente a suo fratello – sotto lo sguardo di chi si trova al di là dello schermo, ad ammirare un’opera che continua ben oltre i titoli di coda anche perché forzatamente priva di un epilogo definitivo.
In Manchester by the Sea (si tratta di una piccola località marittima del Massachusetts) si susseguono fluidamente momenti di insostenibile dramma e altri di leggiadra poesia del quotidiano, senza farsi mancare parentesi umoristiche che risultano efficaci proprio perché inserite in un contesto di assoluta verosimiglianza nel quale spiccano le preziose performance attoriali di un intero cast, capitanato dagli splendidi Casey Affleck e Michelle Williams, in tutta evidenza coinvolti appieno nel progetto. Un film in cui ci si specchia con estrema facilità nel nome di concetti universali quali ad esempio i legami di sangue, nell’occasione tirati al massimo grado di tensione da un Destino mai benevolo. E dove non ci sono, finalmente, né vinti né vincitori: solo sopravvissuti, chi con una vita intera davanti a sé (l’orfano adolescente Patrick), con la giusta pretesa di viverla secondo i suoi desideri; assieme ad adulti che provano a ricostruirsi un’esistenza già sin troppo segnata da traumi indelebili. Qualcuno riuscirà nei suoi intenti, altri no. Così va la vita, priva di specifiche ragioni alla base di fatti che, con naturalezza, accadono. Ed è bello ascoltarne il rumore di fondo, al cinema, senza fastidiose grida o spiegazioni eccessivamente sottolineate. Solamente semplici sussurri che fanno bene all’animo.
Daniele De Angelis