Qualcosa per cui morire
Per la sua opera prima dal titolo Kicks, dopo una serie di cortometraggi pluripremiati (tra cui Nina, in concorso alla Berlinale e vincitore di più di una dozzina di premi internazionali, inclusi lo Student Academy Award e il Directors Guild of America Student Filmmaker Award), Justin Tipping sceglie di raccontare il capitolo di un romanzo di formazione di un quindicenne afroamericano di nome Brandon. Il suo più grande sogno è quello di indossare un paio di nuovissime Air Jordans, ma appena riesce a mettere le mani sul meraviglioso e ambito oggetto del desiderio, questo gli viene rubato da una gang di zona capitanato da Flaco. Brandon e i suoi due amici affronteranno una pericolosa missione attraverso Oakland per riaverle. Ed è proprio nella sua città natale che il regista e sceneggiatore statunitense ambienta parte della sua pellicola, scegliendo come altra cornice uno dei quartieri della East Bay, in quel di Richmond.
Presentato all’11esima edizione della Festa del Cinema di Roma nel concorso di Alice nella Città dopo la premiere al Tribeca Film Festival, Kicks è uno spaccato di vita di un ragazzo che prova in tutti i modi a sopravvivere in un ambiente ostile, dove l’unica legge presente è quella non scritta della strada e a comandare è il più forte. Quella che va in scena è dunque una variazione sul tema dell’antica lotta tra Davide e Golia, dove a vestire i panni del primo troviamo un ragazzino dalla folta chioma che in una notte che non sarà come le altre decide di sfidare le suddette regole, quelle che lo vedrebbero altrimenti sconfitto e schiacciato in partenza. Ma la violenza chiama violenza, per chi come Brandon non è disposto a porgere l’altra guancia pur di riprendersi ciò che gli è stato sottratto ingiustamente. Il giovane protagonista deve imparare a sua spese le regole del gioco e a sopravvivere in un “mondo”, il quartiere dove vive e va a scuola tra mille difficoltà, che assomiglia sempre di più a una vasca piena di squali. Lo stesso drammatico destino che Brandon deve e vuole provare a fronteggiare come il suo coetaneo Ayoub, protagonista del romanzo di deformazione criminale Prince, del regista olandese Sam de Jong.
Kicks è il racconto di una lotta per la sopravvivenza, che sceglie la rappresentazione della violenza per esorcizzarla e non per esaltarla. Dal canto suo, Tipping non ha bisogno però di dichiararlo apertamente, perché confida nell’intelligenza dello spettatore di turno, compreso quello appartenente alle fasce più giovani di pubblico. Il regista americano si fida del fruitore, della sua capacità di giudizio e soprattutto di lettura di ciò che il film prova a veicolare. Questo è un approccio che abbiamo apprezzato molto, anche se è così che dovrebbe essere in generale quando ci si trova al cospetto di storie che portano sul grande schermo la violenza nelle sue innumerevoli manifestazioni. In questo caso, la sua trasposizione cruda, ma mai estrema e gratuita, non rasenta mail a nostro avviso il pericolo dell’emulazione o dell’incitazione, al contrario rigetta entrambe. Ma è importante che lo spettatore, qualsiasi esso sia, si impegni ad andare oltre la superficie delle immagini mostrate e delle parole pronunciate nell’arco della timeline. Una volta fatto questo, solo allora, sarà molto più facile apprezzare il valore educativo del film e il messaggio (non la morale) racchiuso nella sua sceneggiatura: lottare sino alla fine per raggiungere un obiettivo.
Tipping usa il linguaggio della strada e un’estetica ultra pop nel costruire le immagini. Un’estetica che fa dell’uso insistente e insistito delle decelerazioni temporali, con un numero spropositato di ralenti che a lungo andare diventa futile e ridondante. Ciò infastidisce e non possiamo esimerci dal dirlo. È questo il tallone d’Achille di un film che se asciugato da uno stile così invasivo sarebbe stato ancora più incisivo.
Francesco Del Grosso