La nuova guerra
L’uso delle nuove armi “intelligenti”, tipo droni e affini, affascina il cinema contemporaneo. E ben si comprendono i motivi a monte di tali capacità seduttive. In primo luogo la ricomposizione delle immagini a distanza – dai satelliti fino alla famigerate stanze dei bottoni, provenienti dagli angoli più remoti del globo – somiglia molto ad un montaggio cinematografico, alla ricerca di un senso non sempre facile da trovare. Poi, con un ribaltamento di prospettiva, ci si può interrogare sulle conseguenze morali dell’atto di premere un pulsante a migliaia di chilometri di distanza e uccidere delle persone, senza trascurare il possibile verificarsi di vittime collaterali innocenti. Data la “semplicità” del gesto, si potrebbe perdere il significato etico del porre fine alla vita di esseri umani, pur se presunti colpevoli di crimini efferati. Se il recente Good Kill di Andrew Niccol si soffermava decisamente sulla seconda questione, esaminando la crisi interiore del suo personaggio principale, questo Il diritto di uccidere, firmato in cabina di regia da un regista tanto eclettico quanto anonimo come il sudafricano Gavin Hood, sceglie di spettacolarizzare le suddette istanze soprattutto ai fini di intrattenere il pubblico di riferimento, confezionando un thriller neo-bellico che possa essere in grado di catturare l’attenzione degli spettatori. Un obiettivo in buona parte riuscito, ma che ovviamente ha richiesto un prezzo da pagare in termini di evidente stereotipizzazione di situazioni e personaggi.
Il diritto di uccidere – il titolo italiano sposta gli accenti sull’intrinseca questione morale già accennata, mentre il tiolo originale, l’assai più suggestivo e aderente al film Eye in the Sky, ne sottolinea in misura maggiore gli aspetti tecnologici – infatti non esita a far ricorso a qualsiasi forma di retorica, dalla più palese a quella più occulta, per giustificare l’appartenenza alla categoria del genere, piuttosto che opporre un tentativo di trarre una profonda riflessione sui fatti esposti. Il fatto, ad esempio, che la vicenda si svolga in molteplici location (il Kenya teatro degli eventi, dove i rappresentanti di una cellula estremista si sono radunata in un’abitazione di un quartiere di Nairobi; con l’aggiunta dell’Inghilterra e degli Stati Uniti come luoghi decisionali) permette a Hood di adottare un montaggio incalzante in grado di tenere sempre desta l’attenzione di chi guarda. Mettendo poi in evidenza, con un certo compiacimento ironico, l’ipocrisia estrema di una burocrazia internazionale prontissima a rimpallarsi a vicenda – dal Ministro degli Esteri britannico con problemi intestinali, fino al Segretario di Stato statunitense impegnato in una gara di ping pong in Cina – le responsabilità di un attacco non previsto dalla natura stessa dell’operazione militare. Ma ad appesantire non poco le prerogative di un lungometraggio che altrimenti si sarebbe potuto considerare un riuscito esempio di prodotto commerciale in equilibrio tra intrattenimento e denuncia, fa capolino l’utilizzo, strumentale e perciò inverosimile, di determinati personaggi, inseriti appositamente in sede di sceneggiatura per accrescere la suspense, ma che alla fine ottengono l’effetto quasi contrario di zavorrare il film al proprio moralismo di fondo. Ci riferiamo alla bambina venditrice di pane, la quale trovandosi casualmente vicinissima al luogo eletto a bersaglio dei droni, funge da autentico protagonista nemmeno troppo sotterraneo de Il diritto di uccidere. Adorabile, figlia di genitori poveri ma filo-occidentali – il padre le confeziona persino un hula hoop con cui giocare – finisce con il diventare presenza ingombrante poiché sin troppo simbolica per un film non finalizzato a tale scopo.
Peccato, perché Helen Mirren, nei panni di colonnello britannico del tutto schiavo della propria mentalità militare, offre la solita buona performance così come il sornione Alan Rickman – purtroppo alla sua ultima interpretazione prima della scomparsa – nel ruolo di un generale in perenne lotta con la “ragion di Stato” ma dalla frase ad effetto sempre pronta, regala sprazzi della propria classe recitativa. E tuttavia, da un mestierante come Gavin Hood e da uno sceneggiatore dal pedigree televisivo rispondente al nome di Guy Hibbert, era probabilmente lecito attendersi nulla di diverso rispetto ad un’opera riuscita sul piano dell’intrattenimento senza ulteriori pretese, ma pressoché fallimentare nel suo provare a farsi apologo di spessore sulle nuove forme di conflitto imperanti al giorno d’oggi.
Ci saranno migliori occasioni. Forse.
Daniele De Angelis