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Sette note in nero

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VOTO: 7.5

Oltre la parete

A tutti coloro che ricordano Lucio Fulci come “poeta” dell’orrido, regista in grado di imporsi nell’immaginario del pubblico solamente colpendolo violentemente allo stomaco con i suoi film dell’orrore, sarebbe vivamente consigliata, a mero titolo di esempio, la visione di Sette note in nero, thriller con venature paranormali datato 1977, quindi perfettamente inserito nella decade di riferimento per il genere in Italia.
Agli albori dei settanta Dario Argento – sorta di nemesi fulciana, almeno per la critica non troppo illuminata, viste le accuse di plagio rivolte a Fulci e ad altri registi dell’epoca – ha già partorito la sua trilogia comprendente Il gatto a nove code, L’uccello dalla piume di cristallo e 4 mosche di velluto grigio, sdoganando il cosiddetto giallo all’italiana al botteghino. Opere che già si proiettavano, attraverso l’inedita visualizzazione formale di efferati omicidi, verso quell’ipotetica linea di confine che separava il thriller dall’horror. Ebbene, con Sette note in nero Fulci va completamente in controtendenza. Nel lungometraggio scorre pochissimo sangue, mentre tutte le attenzioni sono concentrate su una creazione quanto più possibile genuina della suspense. Si tratta dunque, a tutti gli effetti, di un rimodellamento dei canoni di un sottogenere fino ad allora ben codificato allo scopo di piacere al pubblico. Una di quelle opere che è valsa a Fulci la fama di “terrorista dei generi”. Definizione sulla quale ci sarebbe da argomentare in profondità ma che è da ritenere calzante.
La trama di Sette note in nero può ricordare alla lontana quella de “La zona morta”, romanzo di Stephen King la cui pubblicazione risale però al 1979, perciò successiva al lungometraggio di Fulci. La giovane Virginia (ben interpretata da Jennifer O’Neill, qualche anno dopo, nel 1981, ammirata anche nel cult Scanners, diretto da quel David Cronenberg destinato a portare sullo schermo La zona morta. Tutto torna, nella Settima Arte…) è in possesso di acute doti sensoriali. Sin da bambina “vede” il suicidio della madre – che si getta da una scogliera in un’impressionante sequenza che fa tornare in mente la morte volontaria dei due anziani nel recente Midsommar di Ari Aster – a molti chilometri di distanza. Da adulta è perseguitata dalla visione di una serie di omicidi, tra cui una sepoltura ancora in vita, a lei fisicamente molto vicini come presto scoprirà. Al di là di alcuni passaggi narrativi un po’ macchinosi e di un whodunit (cioè la ricerca del colpevole) non esattamente imprevedibile, risultano davvero ammirevoli i molteplici modi in cui Fulci riesce a dare forma visiva all’angoscia che attanaglia il personaggio principale, traslandola per empatia anche al pubblico. Il passaggio con l’auto in una galleria buia, con annessa visione premonitrice, è una sequenza costruita magistralmente, così come il graduale svelamento di ciò che si cela dietro le apparenti certezze di immagini, al contrario, tutte da decifrare. E proprio qui risiede la portata teorica di un’opera, per molti versi assimilabile al miglior cinema di Brian De Palma, che non è semplicemente un puro distillato del genere ma rovescia la definizione di spettatore (non solo cinematografico) passivo. Un modus operandi tipico del regista romano ancor più meritorio in quanto abilmente dissimulato sotto spoglie di cinema commerciale.
La svolta orrorifica, per Fulci, era alle porte. Sarebbe arrivata due anni più tardi con Zombi 2. Un’altra rielaborazione magistrale di un sottogenere allora in voga, dettata da quel tipo di cinema capace di regalare una forma altissima di godimento, quella dell’alto artigianato che diviene (im)pura autorialità. Categoria a cui appartiene, senza ombra di dubbio, anche Sette note in nero, recuperato nel corso della trentesima edizione del Noir in Festival nell’ambito di un breve ma significativo omaggio a Lucio Fulci. Ne riparleremo nei prossimi giorni con un’altra opera a suo modo radicale e rivoluzionaria come Non si sevizia un paperino.

Daniele De Angelis

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