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Midsommar – Il villaggio dei dannati

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VOTO: 8.5

Natura dentro

Dalla decomposizione progressiva dell’istituzione famigliare alla perversa ritualità della vita in comune il passo, per Ari Aster, è meno lungo di quanto si possa essere portati a credere. Si tratta di semplificazioni, beninteso. Eppure un filo invisibile a collegare l’opera prima del giovane regista statunitense, Hereditary – Le radici del male (2018), con questo Midsommar – Il villaggio dei dannati esiste eccome. Si percepisce il medesimo senso di predestinazione, una sorta di lamento silenzioso suscitato da un pessimismo mai di comodo, bensì sincero e spontaneo nel suo fluire. L’essere umano e la propria, inconfutabile e fatale, natura. Per entrambi i lungometraggi non sarebbe affatto stonata la definizione di horror antropologico. Perché Aster parte da una circostanziata consapevolezza: non esiste orrore senza dolore alla fonte. Beati allora quegli artisti che riescono a far convivere queste istanze nelle loro opere. Film, visto che nella circostanza parliamo di cinema, coraggiosamente anti-commerciali, anzi protesi verso la ricerca di un’inquietudine sottile e insinuante in luogo degli spaventi facili tanto in voga nel periodo. La trama, di conseguenza, diventa puro pretesto per condurre lo spettatore in una zona (anti)narrativa che tutto è tranne che accogliente e confortevole. Midsommar – lasciamo stare l’eclatante sottotitolo italiano del tutto incongruente, messo lì solo per attirare qualche porzione di pubblico sensibile sia ad un passato cinefilo che alle mode correnti – è perturbante sin dall’incipit, che vede una ragazza americana di nome Dani vivere un dramma famigliare di quelli in apparenza impossibili da superare. Supportata in qualche modo dal suo compagno Christian, con il quale stava comunque vivendo un momento di crisi, assieme decidono di aggregarsi ad un gruppo di amici con destinazione Svezia, per assistere alle ricorrenze pagane celebrate da una sperduta comunità stanziata in mezzo alla natura più incontaminata.
Il parallelo con il celeberrimo oggetto di culto The Wicker Man di Robin Hardy (1973) sorge spontaneo ma è del tutto fuorviante. Quello girata da Aster non è un thriller impreziosito di false piste e movimenti, bensì la cronaca, nuda, cruda e crudele, di un inusuale percorso di crescita (o rinascita, per meglio dire) da parte della giovane protagonista. Un’opera che si apre su disegni ancestrali che vanno ad aprirsi a mo’ di sipario, come a premettere che, se il cinema è una specie di sogno ad occhi aperti, allora può essere benissimo un tragitto pseudo allucinatorio da percorrere con sguardo vigile, sino a divenire qualcosa di più vero della realtà. Midsommar è dunque un film che costringe chi lo guarda alla difficile attività dell’interpretazione, rendendolo in tal modo parte attiva di ciò che viene messo in scena. Il “disturbante” ha origine proprio da questa istanza, complessa e radicale al pari delle molte altre che permeano un lungometraggio meditativo e profondo, capace di prendersi tutte le sue quasi due ore e mezza di durata per scavare a fondo nella sottilissima linea che divide conscio e inconscio. Un cinema della mutazione interiore – che si riflette implacabile nello spettatore – a ricordare il David Cronenberg dell’ultimo periodo di carriera, quello in grado di superare le metamorfosi del corpo per concentrarsi su quelle di mente ed anima. Oppure, se proprio si vogliono cercare altri esempi ispiratori, al Lars von Trier sempre libero da vincoli del coevo La casa di Jack, laddove la Morte provocata diviene ultima frontiera inesplorata della creazione artistica. Ma forse Midsommar somiglia solo a se stesso, ed è il più grande complimento che si possa fare nei confronti del cinema di Aster. Autore – poiché due indizi concreti a qualità crescente cominciano a formare un’autentica e inoppugnabile prova – il quale non rinuncia a nulla. Né ad uno sguardo squisitamente sociale e politico (il conformismo del rispetto delle regole annuncia l’annullamento della libertà individuale: vedere per credere), né a quello filosofico-esistenzialista sull’incapacità dell’essere umano di sopravvivere a se stesso, alle proprie insicurezze e a quelle sofferenze fisiche e morali cui andrà certamente incontro. Il tutto messo in scena con capacità tecniche di bellezza stordente.
Piccola nota a margine, per chiudere, di un film indimenticabile nel senso pieno del termine. Se le giurie di premi e premietti non nutrissero preconcetti assai duri a morire nei confronti del cinema di genere (quale poi, nel caso di Midsommar?) la straordinaria Florence Pugh, nella parte di Dani, mieterebbe allori a destra e manca. Sul suo volto, al pari di un libro aperto, si può leggere in controluce l’intero significante – e non significato – di un lungometraggio perfettamente in grado di aprire nuove strade all’orrore cinematografico contemporaneo. Inteso proprio come frantumazione scientifica della categoria di appartenenza.
Gridare al capolavoro sarebbe improprio; ma scrivere di opera seminale assestata su un determinato solco affatto predefinito è veramente il minimo riconoscimento che è possibile tributare a Midsommar.

Daniele De Angelis

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