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David Cronenberg, dalla Carne all’Anima (1)

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I – Dentro il corpo

Se è possibile – come faremo in questo saggio – dividere la carriera di David Cronenberg in tre segmenti temporali ben definiti, il primo, quello che tutti identificano nel periodo horror del maestro canadese, non può che partire con una precisa riflessione sul concetto di pura inquietudine, inteso sia in chiave emozionale che filosofica. Perché in fin dei conti è chiarissimo come sia proprio questa pulsione universale e dai confini sterminati ad interessare il Cronenberg degli esordi; in fondo, nelle pellicole da lui girate tra la metà dei settanta e gli inizi degli ottanta (sono in tutto quattro, fa eccezione l’anomalo, ma fino ad un certo punto, Fast Company – Veloci di mestiere ambientato nel mondo delle corse automobilistiche…), parassiti, virus, tumori o iperpoteri non sono altro che pretesti narrativi per penetrare all’interno delle irrisolvibili contraddizioni umane, la cui natura rimarrà per sempre in sospeso tra una parvenza di ragione ed un insopprimibile istinto primordiale. Ed è proprio questo il timore primario che traspare dai film di Cronenberg: quella rappresentata dal costante pericolo di una regressione in agguato da essere cogitante a mero involucro di carne in totale balia delle proprie spinte naturali portate all’estremo. Ciò accade nel suo primo lungometraggio Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) dove parassiti creati accidentalmente per un esperimento andato male – ma tentato, tema ricorrente nella poetica cronenberghiana, allo scopo di “migliorare” il futuro dell’umanità – penetrando nei vari corpi scatenano una frenesia sessuale che conduce tutti gli abitanti di un avveniristico complesso residenziale (dal profetico, in senso negativo, e ironico nome “Arca di Noè”) all’ineluttabile contagio, il quale nel finale s’intuisce in rapida ed inevitabile espansione.
S’intravede con chiarezza, tra le pieghe di un discorso raffinatissimo – a dispetto di una forma tipica da cinema di genere, conseguente alla esiguità del budget a disposizione ma non solo – di totale revisione e personalizzazione dell’exploitation horror, un’altra specifica angoscia che potrebbe affliggere il genere umano secondo la visione di Cronenberg: il pericolo del contagio totale inteso nel senso simbolico di massificazione, eguaglianza nella negatività. Il demone sotto la pelle, per questa ragione, è prima di ogni altra cosa un’opera a carattere socio-politico, dove il “virus” si insinua in una comunità più che benestante in cui covano sotto la cenere noia esistenziale, crisi coniugali e frustrazioni sessuali pronte a deflagrare non appena gli viene data una possibilità. La critica di Cronenberg al micro(macro)cosmo borghese è evidente; ed il contrappasso sarà appunto un ritorno allo stato primitivo e istintuale, con persino accenni di pedofilia, sintomo assolutamente chiaro del deragliamento di qualsiasi freno inibitorio razionale. L’opera prima di Cronenberg – che denota immediatamente un’ironia apocalittica molto personale – potrebbe essere anche considerato, per molti versi, l’horror totale che il genio di Luis Bunuel non ha mai partorito, la cui “dichiarazione di intenti” sta tutta nel racconto del sogno fatto dall’infermiera Forsythe al dottor Roger St. Luc, l’ultimo a capitolare di fronte all’epidemia pansessuale. Il resoconto inconscio di un’irresistibile attrazione gerontofila da lei provata verso il corpo di un uomo anziano, a contagio non ancora avvenuto. Perfetta esplicitazione di un binomio eros/thanatos per l’autore canadese assolutamente inscindibile, che troverà ulteriore conferma nel successivo Rabid, sete di sangue (Rabid, 1977).
Rabid è infatti, fondamentalmente, una storia d’amore inserita in un contesto da apocalisse immanente. Le premesse narrative risultano molto simili a quelle de Il demone sotto la pelle: un’operazione chirurgica tesa a salvare una giovane donna ferita a seguito di un gravissimo incidente motociclistico, genera conseguenze imprevedibili, cioè una sorta di aggressività incontrollabile che porta il singolo essere umano a nutrirsi del sangue altrui, come affetto da rabbia animale. Portatrice “sana” dell’epidemia è proprio Rose, la ragazza dell’operazione, interpretata – per specifica decisione di Cronenberg – dalla pornostar Marilyn Chambers. Una scelta che si apre a molteplici chiavi di lettura, non ultima quella della diffusione di una ipotetica, devastante, malattia a trasmissione sessuale che all’epoca non s’intravedeva. Ciò che risalta in Rabid, rispetto al film precedente, è proprio la componente melodrammatica dell’impossibile ricerca di Rose da parte del suo fidanzato, culminante in un finale forse già “scritto” ma di fortissimo impatto drammatico. Un tema. quest’ultimo, che in Cronenberg man mano assumerà un rilievo sempre più centrale, al pari di una simbologia sessuale (Rose si nutre di sangue attraverso una specie di aculeo fallico, che fuoriesce da una fessura posta sotto l’ascella ed assai simile ad una vagina femminile) capace di veicolare messaggi tutt’altro che rassicuranti. Non è misoginia pura e semplice, quella del Cronenberg “orrorifico”; quanto piuttosto il timore inconscio che attraverso il sesso – o comunque una parvenza di esso – si possano generare altri esseri umani. E quindi altri “mostri”. Ma se questi ultimi nascessero invece semplicemente tramite una forza mentale repressa e deviata?
Brood – La covata malefica (Brood, 1979) è il film in cui David Cronenberg scrive la parola definitiva sulla sessualità inserita in contesto di cinema di genere. O meglio: della visione del cinema di genere che gli è propria. Infatti il passaggio “sessuale” viene radicalmente saltato, quasi cancellato. Dal trauma del contagio per via corporale – quindi, implicitamente o esplicitamente, attraverso un rapporto carnale – si passa all’onnipotenza della forza mentale, capace di generare l’impossibile. Con Brood, oltre a confezionare un horror perfettamente modulato dal punto di vista della suspense, Cronenberg teorizza magistralmente sulla possibilità che la mente umana (sempre femminile, manco a dirlo) possa partorire in modo diretto una “figliolanza” in grado di esaudire i propri desideri più oscuri ed efferati. Questa sorta di tumori scaturiti da una rabbia incontrollata – anche in Brood c’è il consueto esperimento neuro-psichiatrico che sfugge ad ogni tipo di controllo fino alle estreme conseguenze… – vengono rappresentati visivamente dal cineasta di Toronto come nani deformi, dall’aspetto infantile nonché ovviamente privi di ombelico. Vivono e muoiono giusto il tempo di obbedire a degli ordini, appagare un istinto omicida che si nutre dei rancori mai sopiti del tutto direttamente dall’inconscio. La svolta – per certi versi epocale nel cinema di Cronenberg – di Brood sta esattamente qui: pur raccontando ancora un orrore puramente fisico, con almeno due sequenze (quella terribile e spietata dell’omicidio nell’asilo e l’ultimo “parto” della protagonista) autenticamente raccapriccianti, Cronenberg ci dice che tutto parte dall’alto del cervello; e quando una tale forza viene liberata risulta poi estremamente difficile da controllare. Nola Carveth, il personaggio principale (benissimo interpretato dall’inquietante Samantha Eggar), è assieme mostro e vittima. Come di consueto nel cinema di Cronenberg regna l’ambiguità morale più assoluta: il passato di Nola, una volta riemerso a seguito della terapia, in un certo senso giustifica il suo furore verso la famiglia d’origine. Ma quando la scienza commette un errore, a pagarne le conseguenze saranno solo gli innocenti, nell’ineluttabilità pessimistica tipica dell’autore di Scanners. Il quale film, guarda caso, rappresenta il passo successivo di una filmografia nella quale la lotta di potere, dall’ambito familiare (in Brood l’ultimo a fronteggiare la follia indotta di Nola sarà suo marito) sta passando a livelli ben più alti.

2- La supremazia della mente

Tutti i sottili sottotesti socio-politici presenti nelle precedenti pellicole di Cronenberg esplodono con fragore nei memorabili Scanners (id, 1981) e Videodrome (id, 1983), due opere “saggistiche” – nel senso migliore del termine, per la loro incredibile profondità di significato – che ritraggono un mondo allo sbando e privo di morale destinato a cadere nelle mani del potente di turno, peraltro sempre giustamente raffigurato come entità astratta, senza possibilità di rimedio. Scanners racconta lo scontro tra due fazioni, in cui gli individui ai quali fa riferimento il titolo – esseri umani dotati di eccezionali facoltà telecinetiche – vengono manovrati da agenzie para-governative e oscure multinazionali allo scopo di conquistare la supremazia totale (s’intuisce) sul mondo. Un’opera dove il pessimismo e l’assoluto disincanto di Cronenberg nei confronti dei cosiddetti “poteri forti” raggiunge vertici forse ineguagliati: Scanners, arricchito da superbi effetti speciali tanto disturbanti (crani che esplodono con la sola forza della mente) quanto necessari al fine di sottolineare un discorso condotto sino alle estreme conseguenze, rappresenta ancora oggi un apologo politico-filosofico sulla ineluttabilità della legge della giungla applicata in alto loco ad una società senza regole, in cui il più forte finirà con il “divorare” – simbolicamente – il meno dotato. Il personaggio principale Cameron Vale viene presentato, nella prima sequenza, come un homeless, uno sbandato il cui super-potere rappresenta al tempo stesso la sua condanna. E risultano inutili i suoi tentativi di ribellione ad un destino già scritto: vittoria e sconfitta finiscono con il confondersi sistematicamente, in una contesa di stampo pseudo-naturalistico dove il più feroce, l’essere meno provvisto di un qualsiasi barlume di umanità, finirà inesorabilmente con il prevalere.
Nel fondamentale Videodrome (id, 1983), opera dalla lunga e meditata gestazione da parte del regista, la mente umana – da soggetto attivo strumentalizzato ad arte da poteri occulti – diviene organo passivo da manipolare a piacimento attraverso l’unico medium che potesse raggiungere un’audience davvero globale, almeno all’epoca: la televisione. La fantomatica organizzazione para-fascista che punta ad una nuova forma di società a struttura piramidale, condiziona la volontà dell’uomo attraverso la visione di immagini intrise di inaudita violenza, capaci di provocare incredibili forme allucinatorie arrivando sin quasi alla creazione di una realtà parallela. L’essere umano, assistendo a tali programmi, muta a livello genetico, divenendo altro a livello cerebrale. Ne sperimenta i devastanti effetti Max Renn, piccolo ma ambizioso imprenditore nel settore televisivo imbattutosi (non) per caso nelle trasmissioni del misterioso canale. La televisione si fa carne e verbo, nuovo messia tecnologico da seguire supinamente. In Videodrome è preconizzata da Cronenberg la nascita di un altro uomo, dalla struttura non più solo corporea ma meccanicistica, in nome del progresso che avanza; eppure controllato e manovrato da terzi proprio attraverso l’impulso primordiale dei suoi istinti. Una contraddizione solo apparente che rappresenta in fondo una sorta di quadratura del cerchio per la poetica cronenberghiana sull’imperfezione immodificabile dell’essere umano, da qualunque lato – o genere cinematografico – essa si possa osservare. Riguardo un’opera come Videodrome, comunque, non basterebbe mai un intero saggio, ad esaurire ogni discorso intavolato dal regista…
Con La zona morta (The Dead Zone, 1983), tratto dal romanzo omonimo di Stephen King, si chiude la trilogia che Cronenberg ha idealmente dedicato ad un’analisi pressoché autoptica della mente umana. La quale, nello specifico contesto del film, effettua un ulteriore salto di qualità, raggiungendo quei vertici di onniscienza – da parte di un singolo individuo – solo accennati nelle due opere precedenti. Ma, ancora una volta in Cronenberg, il potere più o meno assoluto viene equiparato ad una sorta di malattia dalla quale è impossibile liberarsi.
Il plot de La zona morta è noto. A seguito di un terribile incidente stradale che lo lascia in stato comatoso per diversi anni, il protagonista Johnny Smith (uno splendido Christopher Walken, qui artefice di una delle sue migliori interpretazioni) al suo risveglio si accorge di essere divenuto un sensitivo, capace di leggere la storia passata e futura delle persone semplicemente toccandole o maneggiando un oggetto a loro appartenuto. Immerso in un atmosfera di solenne sofferenza – Johnny con l’incidente ha perduto gran parte della propria vita precedente, mentre nella sua cittadina imperversa un serial killer di giovani ragazze – La zona morta è un’opera che riassume in modo esemplare il talento di Cronenberg nel mescolare generi cinematografici in apparenza molto distanti tra loro come il thriller, l’horror, il dramma personale e il melodramma, con quest’ultimo che certo non sarebbe potuto mancare in una pellicola così ad ampio respiro. Ed è anche, a suo modo, un film “religioso”: la parabola esistenziale di Johnny, che potrebbe tranquillamente essere accostata ad un calvario laico, si conclude con il sacrificio di se stesso per la salvezza del mondo, in uno dei finali – pur assolutamente tragico e controverso – meno pessimisti che Cronenberg abbia mai girato. Per una volta il cosiddetto “mental power” è infine usato per uno scopo nobile, anche se il personaggio principale tenterà di commettere un omicidio per raggiungere il proprio obiettivo. Sempre nel segno di quella salutare e coerente ambiguità morale che è sempre stata caratteristica ben visibile nel cinema di Cronenberg, ad affermare che qualunque verità non potrà mai essere assoluta e inattaccabile ma sempre da mettere in discussione. In nome di un umanesimo – quello cronenberghiano – del tutto particolare ma significativo oltre qualsiasi misura.

Daniele De Angelis

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