Uno sguardo su una filmografia fuori da ogni schema
Non è semplicemente uno dei cineasti contemporanei di maggior interesse. Paul Thomas Anderson racchiude, nella propria parabola artistica, le caratteristiche dell’uomo di cinema “totale”, il regista capace di adattare alla perfezione il suo inimitabile stile ad ogni storia raccontata, prescindendo dal (presunto) genere e dall’ambientazione temporale. Il miracolo del cinema di Paul Thomas Anderson risiede nell’immediata riconoscibilità di messa in scena, del tutto superiore alla media, piuttosto che l’insistenza su determinati stilemi e/o contenuti in grado di fare “marchio di fabbrica” autoriale come accade per altri colleghi. Guardare un film diretto da Paul Thomas Anderson significa partire per un metaforico viaggio attorno gli sterminati aspetti che riguardano l’uomo, l’individualità dello stesso nonché le molteplici “società” che egli è capace di formare. Il cosiddetto fattore umano, partendo dalle meravigliose contraddizioni di cui è portatore, è sempre il punto di partenza di ogni sua opera. Differente proprio perché la macchina da presa osserva queste magnifiche, sfaccettate creature da angolazioni sempre diverse, adeguando alla perfezione – non solo tecnica, ma anche e soprattutto di visione morale – ad ogni occasione la propria modalità di regia. Non a caso sono fioccati paragoni straordinariamente illustri, nel giudicare le sue opere. Martin Scorsese, Robert Altman, John Huston. Nessuna sorpresa: la critica gode nel fare accostamenti iperbolici, nel provare a decifrare quale origine ispiratrice ha il determinato film piuttosto che l’altro. Tuttavia il caso di Paul Thomas Anderson è differente. Basta analizzare a fondo la sua filmografia per comprendere quanto sia di certo plausibile snocciolare una litania di nomi, ma come alla fine si risalga sempre a lui stesso, unico alfiere contemporaneo di un cinema modernissimo e tuttavia sempre rivolto all’essenza classica della Settima Arte. Al cineasta che nella prima fase di carriera – diciamo fino al film sentimentale sui generis Ubriaco d’amore (Punch-Drunk Love, 2002) – ha girato opere puramente emozionali in cui era nitidamente percepibile la sua presenza dentro la storia nonché a fianco dei personaggi, circondati magari da un alone di mistero ma mai del tutto negativi; per poi trasformarsi in una sorta di implacabile osservatore delle precarie fondamenta su cui è costruita la società statunitense, scegliendo di raccontare opere di ambientazione passata al fine di definirne meglio i contorni e i riverberi sull’oggi. Cosa sono, del resto, Il petroliere (There Will Be Blood, 2007) – che già al suo interno contiene una “duplicità” definitiva – e The Master (id, 2012) se non due facce della medesima medaglia, due illuminanti rivisitazioni della famosa frase hobbesiana “homo homini lupus”? Piaccia o meno, il paese democratico per eccellenza, gli Stati Uniti, sono nati proprio così: fagocitando una civiltà antica (i nativi d’America) ed instaurando per inerzia una corsa sfrenata all’affermazione individuale di loro stessi. E i due film appena citati dissezionano alla radice tale fenomeno, sia pur con analisi differenti dello stesso.
Curiosamente, ma nemmeno poi troppo, l’attuale percorso artistico di Paul Thomas Anderson si apre e si chiude all’insegna del noir, quasi a disegnare un circolo perfetto a dispetto delle sue, evidenti, deviazioni. In effetti, la peculiarità principale del cinema del regista californiano è proprio quella di non nutrire alcun timore nel mostrare la complessità anche e soprattutto negativa dell’essere umano. Un tempo che si dipana tra Sydney (l’esordio datato 1996: Paul Thomas Anderson ha appena ventisei anni) e Vizio di forma (Inherent Vice, prima trasposizione ufficiale da Thomas Pynchon). Esaminandoli ora si nota lo spazio di una vita, il cambiamento concreto nel modo di vedere le cose del mondo rimanendo coerenti alle proprie convinzioni. Sydney è una storia personale dove l’affetto (filiale, sentimentale) è in primo piano. Rintanato nell’ombra si nasconde il marciume della società, pronto a colpire. In Vizio di forma le proporzioni sono in pratica opposte: la corruzione morale di un potere alla deriva come la fantomatica barca Golden Fang – usata per traffici di stupefacenti e chissà quant’altro – pare dilagare da ogni fotogramma; e tuttavia è l’amore, forse impossibile, per la sua ex Shasta a muovere le azioni del personaggio principale, lo sbalestrato detective Larry “Doc” Sportello. Diciotto anni sono ben più di una generazione: sono la spia di una vera e propria de-generazione. Tutto cambia. In peggio. E poco importa se l’ambientazione di Vizio di forma sposta le lancette del tempo indietro al 1970. Ogni grande opera d’arte – che nello specifico si sdoppia in romanzo e film – per definizione fa proprio il concetto di atemporalità. Si ritorna così, per pura associazione concettuale, a Il petroliere, alla figura archetipica di Daniel Plainview/Daniel Day Lewis. Un uomo che non conosce ostacoli – tantomeno etici – sulla strada che conduce al potere. L’omicidio è funzionale al viaggio esistenziale, che si svolge nella prima parte del secolo scorso. Un giovane prete, Eli Sunday/Paul Dano, gli si oppone. Ma rapacità e religione non sono conciliabili poiché si muovono sul medesimo terreno, quello della conquista definitiva dell’anima, propria e soprattutto altrui. Tra sequenze di una perfezione tecnica abbacinante (l’incidente al pozzo petrolifero) e desolazione assoluta dal punto di vista morale, potrà restare in vita soltanto uno dei contendenti. Certamente non vittorioso, però. La parabola cantata sin dagli antichi greci sugli umani destini si compie ineluttabilmente.
Non c’è invece lotta all’ultimo sangue (fisico, reale) in The Master. Anzi, la vicenda che vede protagonisti Freddie Quell/Joaquin Phoenix e Lancaster Dodd/Philip Seymour Hoffman assume chiaramente, in determinate circostanze, le sembianze di una storia d’amore dove però la personalità più forte non può non prevalere sull’altra, quella meno attrezzata alla vita. Accade assai spesso, del resto, nella consuetudine quotidiana. Una lezione che, tuttavia, ognuno può fare propria, in qualsiasi ambito possa tornare utile. La storia raccontata da The Master – anch’esso ambientato nel secolo scorso, ma più avanti rispetto a Il petroliere – è assieme vecchia quanto il mondo e “moderna” come l’esistenza che ci accingiamo a rincorrere ogni mattina che ci alziamo dal letto. E, come sempre, il cinema di Paul Thomas Anderson si svincola da qualsiasi collocazione temporale per approdare a lidi universali. Oltre che illustrare, attraverso un percorso tanto insolito quanto rispettoso dell’umanità dei personaggi, il concetto compiuto di società moderna. The Master è stato, per comodità critica, definito un lungometraggio sugli albori di Scientology: in verità è molto di più, parecchio più avanti di coloro che lo hanno letto solamente in questo modo.
L’amore allora. Se The Master può essere definita una love story del tutto particolare, allora Ubriaco d’amore dovrebbe venire considerato un romantic-movie a tutti gli effetti, a partire dal riduttivo titolo italiano. Invece la prospettiva è, al solito, genialmente “decentrata”. Come molti dei personaggi andersoniani Barry Egan/Adam Sandler è profondamente ammalato di solitudine, nonostante sia circondato da sette premurose – anche troppo – sorelle con rispettive famiglie. Barry sfoga questa frustrante situazione in attacchi di rabbia incontrollata. Poi conosce Lena/Emily Watson, ed il sentimento – con tutto il carico di insicurezze e paure iniziali – si fa pura magia introspettiva e visiva, che la regia di P.T. Anderson rende in maniera a dir poco magistrale. C’è anche dell’altro: la metà oscura dell’uomo (e della donna) nonché della società in cui esso è più o meno inserito. Barry e Lena superano gli ostacoli, grazie alla determinazione di lei nell’intrecciare il rapporto e la forza consapevole dell’amore che in lui cresce giorno dopo giorno, fotogramma dopo fotogramma. Alla fine si scambiano delicatezze dicendo di volersi rompere elementi del viso e mangiarseli. Il gioco dell’amore, alla fine, è tutto qui: una partita virtuale dove l’estasi della comunione assoluta ed il pericolo del massacro (metaforico, quando non purtroppo letterale…) reciproco sono destinati a convivere per tutta la durata del rapporto. Del film e di qualsiasi unione sentimentale in senso generale, in un susseguirsi di emozioni primarie privo di soluzione di continuità. Che poi è quello che mostra, su scala plurima, un’opera quintessenziale per comprendere a fondo il cinema di Paul Thomas Anderson come Magnolia (id, 1999).
A suo tempo, lo si definì un film corale. Ma oltre ad essere un’opera con molti personaggi – ed un cast stellare: Tom Cruise, Julianne Moore, Jason Robards (alla sua ultima interpretazione) più i fedelissimi John C. Reilly, Philip Seymour Hoffman e William H. Macy – Magnolia è una storia profondamente intima, capace di nutrirsi e crescere attraverso un flusso irresistibile di emozioni. Tutti i personaggi lottano, sul filo della disperazione esistenziale. Qualcuno contro se stesso o il proprio passato, qualcun altro si oppone ad un nemico che si annida dentro l’alveo familiare. Tutti remano controcorrente verso il Destino, quel Fato superiore che spesso ha governato le sorti dei personaggi andersoniani ma che mai come in Magnolia assume un ruolo così rilevante. Il particolarissimo umanesimo cinematografico messo in scena, con un virtuosismo da manuale e mai fine a se stesso, da Paul Thomas Anderson trova un esempio perfetto nella sua opera terza: solamente dopo aver raggiunto il cuore dei vari personaggi la sospensione di credulità potrà permettere allo spettatore di credere che la catartica pioggia di rane del finale possa essere un evento accettabile al pari di qualsiasi altro di tipo atmosferico. Se accade, vuol dire che si è entrati a far parte di qualcosa di più grande della complessità di un singolo individuo. Magari una famiglia allargata. Quella stessa sorte capitata ad un certo Eddie Adams/Dirk Diggler, giovane dal grande pene, nel precedente Boogie Nights – L’altra Hollywood (Boogie Nights, 1997). Un altro titolo fondamentale per comprendere appieno l’essenza della poetica cinematografica di Paul Thomas Anderson: la solitudine può uccidere, la comunanza far (soprav)vivere. Una visione romantica in senso lato eppure maledettamente veritiera sul funzionamento delle cose esistenziali, la quale alligna, secondo Anderson, laddove difficilmente lo si sarebbe supposto, ovvero nel mondo del porno. Chi, all’epoca o ancora oggi, ha accusato P.T. Anderson di una visione nostalgico-buonista (il film è ambientato a cavallo tra i settanta e gli ottanta) del mondo pornografico, non ha saputo cogliere la perfetta esemplarità della situazione. Dove in un habitat molto, troppo. borderline fare il passo giusto significa salvarsi; mentre fare la mossa sbagliata vuol dire precipitare nell’abisso. Il porno diventa allora metafora del cinema, acuto teorema filosofico sui pericoli insiti nei cambiamenti: dalla pellicola al video il porno cosiddetto d’autore muore, accompagnando nel declino le performance attoriali alle vicende umane che vi si celano dietro. Rimangono gli affetti sinceri, le amicizie pure. Sempre possibili. Entrambe possono rappresentare tutto o non abbastanza, nel cinema umanista di Paul Thomas Anderson. Basta spostare, metaforicamente e non, la cinepresa di qualche centimetro. Al fine di cogliere dettagli, anche interiori, capaci di sfuggire alla “banalità” dello sguardo comune.
Daniele De Angelis