Home Speciali Retrospettive Ubriaco d’amore

Ubriaco d’amore

386
0
VOTO: 9

Un piano… un piano, dolce Adam Sandler

Reduce dal film, Magnolia, che nel 1999 ne aveva sancito per molti la consacrazione, Paul Thomas Anderson seppe poi affacciarsi sul nuovo millennio con un autentico colpo di genio, che gli valse anche il premio per la regia alla 55ª edizione del Festival di Cannes. Era il 2002. E la visione di Ubriaco d’amore – Punch-Drunk Love resta ancora oggi una delle più vibranti che il cineasta losangelino ci abbia regalato.
Come considerare, alla stregua di quanto fatto in precedenza e di quanto è venuto dopo, il sorprendente lungometraggio con protagonisti Adam Sandler ed Emily Watson? Una possibile cesura? Una bizzarria? Il naturale e al contempo anomalo proseguimento di una poetica, che in fondo non è mai stato agevole classificare, inquadrare? Forse è proprio questa sfida alle troppo facili etichette uno dei meriti maggiori, che si possano attribuire alla non così prolifica ma intensissima filmografia di Paul Thomas Anderson.

Elogio dell’amor fou, che può germogliare anche in asettici corridoi e negli stanzoni di qualche capannone industriale. Decostruzione della commedia sentimentale americana in chiave straniante e post-moderna. Inno stralunato e sopra le righe a un’introversione che quasi sfocia in megalomania. Studio rapsodico e un po’ epilettico sulle potenzialità dell’attore protagonista, le cui movenze hanno esiti vicini allo “slapstick”. Sapiente descrizione di ambienti, chiusi e aperti, che anche grazie a un accenno di stilizzazione sembrano amplificare il disagio emotivo dei personaggi, proponendosi talvolta (vedi le Hawaii) quale palcoscenico di un loro immaginifico riscatto. Tutto questo e ovviamente molto di più è Ubriaco d’amore.
Come già si era visto e ancora si sarebbe verificato nel cinema di Paul Thomas Anderson, è la stessa messa in scena, esplorata in profondità dalla macchina da presa, a essere permeata delle diverse ossessioni di un protagonista sui generis. In questa circostanza Adam Sandler. Ovvero Barry Egan, uno scalcinato piccolo imprenditore e al tempo stesso uomo teneramente bipolare, che sin dall’inizio pare intrappolato in una serie di recinti fisici e mentali. La sua sarà anche la storia del frenetico abbattimento di tali barriere, in un percorso di scoperta dell’amore tanto rapido e ubriacante quanto rischioso. In tutti i sensi, considerando quelle parentesi simil-noir che in modo sincopato s’aprono e si chiudono di continuo, nella struttura filmica ibrida di un’opera che finisce per assorbire, distillate in gocce, le più disparate pratiche di genere…
Fare e disfare continuamente, come è tipico di un soggetto bipolare particolarmente creativo. Questo sembra essere il “gioco” preferito del protagonista. Eppure, sin dalle primissime scene, è evidente che Barry Egan a.k.a Adam Sandler dovrà faticare non poco, nel tentativo di uscire dalla gabbia che la vita gli sta costruendo intorno. Quella nella quale risulta intrappolato è una struttura a cerchi concentrici, che si manifesta quindi sotto aspetti diversi, pur lasciandolo costantemente in balia delle proprie fobie e frustrazioni. Anche qui la gabbia più stretta è costituita da una famiglia soffocante: unico maschio in mezzo a sette sorelle (riferimento numerico quanto mai evocativo, Enrico Mattei docet), Barry rivela da subito un’identità fragile di fronte a quelle lingue biforcute, che ne mettono ogni volta in crisi il già delicato equilibrio psicologico, sollecitando da parte sua risposte ora aggressive e ora di aperta sottomissione.

Scorrendo in rapida successione le altre gabbie, in cui è costretto a sostare lo spirito inquieto di Barry, un ruolo degno di nota spetta senz’altro al linguaggio verbale. L’eloquio fatto di lapsus frequenti, dislessia, interruzioni, ripetizioni, accelerazioni improvvise, ottimamente reso da un Adam Sandler in splendida forma attoriale, è già indice di determinate problematiche. E poi c’è la solitudine. Quella difficoltà, comprensibilmente radicata (viste anche le peculiari dinamiche famigliari) nel suo carattere, a comunicare con l’altro sesso, gli farà prendere direzioni diverse in un arco di tempo brevissimo, neanche fosse in balia del vento.
Il primo sfogo sarà rappresentato dalle telefonate a una linea erotica, che propizieranno quasi istantaneamente una lunga catena di guai, dagli esiti fondamentalmente grotteschi, farseschi, ma con punte di violenza non trascurabili. Non ancora emancipatosi dalle famigerate sette sorelle, il nostro Barry dovrà quindi vedersela con alcuni criminali da strapazzo: ironia della sorte, quattro biondissimi e scorbutici fratelli. Significativo che ci sia un altro biondo sguaiatamente luciferino, in cima alla catena di comando. Parliamo, è ovvio, del recentemente scomparso Philip Seymour Hoffman, attore feticcio di P.T. Anderson, in un’altra delle sue mirabili interpretazioni.

A parte il vicolo cieco delle telefonate erotiche, indice dello smarrimento iniziale, la ricerca con cui Barry vorrebbe porre fine al proprio “deficit di accudimento” (rubiamo pure l’espressione al Nanni Moretti di Habemus Papam) affettivo si incontrerà anche (e per fortuna) con il delizioso personaggio, interpretato da Emily Watson. La formidabile attrice britannica, consacrata qualche anno prima a livello internazionale da Le onde del destino, offre qui tutte le sue doti di sensibilità per affrescare in non tantissime battute un personaggio recettivo, capace di dialogare con il temperamento non facile da gestire di Barry, senza però rinunciare a esporre la propria personalità. E certi suoi duetti con Adam Sandler sono davvero memorabili. Questi sono anche i momenti in cui Paul Thomas Anderson cita più espressamente gli stilemi della commedia romantica statunitense, parafrasata in inquadrature e movimenti di macchina difficili da equivocare. Ma parallelamente le scene in questione sono rese oggetto di uno scivolamento, talora impercettibile, altrove più dichiarato e roboante, verso quell’impronta straniante e paradossale che, complice la diversificazione continua della colonna sonora, rende sottilmente ansiogeno il rivelarsi di tale storia sentimentale.

Questo ci porta ad annotare qualche altra osservazione su quella impostazione registica, illuminata ed estremamente consapevole per quanto all’apparenza un po’ schizoide, valorizzata anche dal premio che a Cannes la giura molto opportunamente volle conferirgli. Di Ubriaco d’amore è soprattutto la dimensione spaziale a restare impressa, capace com’è di riflettere e di riversare all’esterno il più intimo sentire dei personaggi, a partire naturalmente dal protagonista. Anzi, sembra proprio che sia il suo rapporto conflittuale con la realtà circostante, la molla da cui prendono forma certe intuizioni fotografiche e di messa in scena. A parte i seducenti intermezzi cromatici, ulteriore fonte di straniamento, le riprese stesse del film sono studiate e perfezionate in post-produzione così da suggerire, specie nelle sequenze più emblematiche, tutta l’agorafobia che si intuisce in Barry Egan sin dalla sua prima apparizione. In lui la difficoltà a rapportarsi con le persone si rispecchia in una analoga difficoltà a rapportarsi con gli spazi condivisi. Anche qui, come nel precedente Magnolia, non mancano gli sconfinamenti in un territorio dell’immaginario popolato dall’imprevedibilità, se non dalla palese assurdità, degli eventi. L’iniziale incidente in strada, collegato poi alla misteriosa apparizione dell’armonium banalmente scambiato per un piano, è già sintomatico di questa irruzione in scena di elementi al limite della surrealtà. E il ripetuto insistere sul rapporto problematico di Barry con gli oggetti servirà a ribadirlo. Ma, quasi a voler concedere al suo protagonista una possibile via d’uscita da una condizione similmente distopica, la difficoltà di abitare determinati spazi e di interagire positivamente con gli oggetti conoscerà, strada facendo, qualche significativa inversione di segno. Lo stesso piano/armonium assumerà un ruolo quasi totemico, in certe fasi del suo stralunato corteggiamento di Lena Leonard a.k.a. Emily Watson. E ai lunghi piani-sequenza in cui la profondità di campo rivela sempre qualche elemento di disturbo, o qualche potenziale pericolo, finiranno per alternarsi altre sequenze più armoniche, rassicuranti, tendenti magari a una maggiore bidimensionalità: tali sono, per esempio, le scene in cui Barry e Lena, appiattiti sullo sfondo e ridotti quasi a eleganti silhouette, riescono infine a manifestare i propri sentimenti nonostante il flusso costante di gente intorno a loro. Le Hawaii non sono più una specie di miraggio. Le Hawaii sono diventate la cornice di una maturazione improvvisa, folgorante, del personaggio di Barry, che è riuscito a trovare dentro di sé una chiave. La stessa chiave, forse, che gli permetterà di evadere dalla gabbia, coronando così la dura lotta per sottrarsi al peso dei propri complessi e delle più radicate paure.

Stefano Coccia

Articolo precedenteBirdman: luci (e ombre) della ribalta
Articolo successivoDancing with Maria

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

dodici + cinque =