Il potere del sangue
There Will Be Blood (2007), che in Italia è diventato Il petroliere, privando il titolo di tutta la sua potenza originaria, è il quinto lungometraggio di Paul Thomas Anderson, successivo a Ubriaco d’amore (2002) e precedente al magnifico The Master (2012). Sette pellicole, escludendo corti e lavori televisivi, dal 1996 a oggi, compreso l’imminente Vizio di forma (Inherent Vice), già destinato a diventare un classico contemporaneo.
There Will Be Blood è liberamente tratto dal romanzo Oil! (1927) di Upton Sinclair ed è film assolutamente fondamentale nella filmografia di Anderson. Questo non soltanto per il suo essere capolavoro tout court (non è l’unico, nel corpus filmico del cineasta) oppure per le otto nominations agli Oscar con la conquista di due statuette, Miglior Attore a Daniel Day-Lewis e Miglior Fotografia a Robert Elswit. La pellicola può essere vista come il definitivo punto di passaggio, già avviato nel film precedente, dalla coralità tipica delle prime opere al focalizzarsi su una coppia di personaggi maschili in conflitto fra loro, caratteristica che rivedremo in The Master con gli strepitosi Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffmann e del resto presente in quasi ogni sua pellicola. Il protagonista Daniel Plainview è un Daniel Day-Lewis che qui supera se stesso, onnipresente in ogni minuto di film eccezion fatta per qualche sequenza, profondamente istrionico, in tutto e per tutto “larger than life”; per la figura del “maschile antagonista”, ossia Eli Sunday, pastore e fondatore della Chiesa della Terza Rivelazione nonchè sedicente guaritore, era stato inizialmente scelto Kel O’Neill, mentre a Paul Dano era stato assegnato unicamente il ruolo di Paul Sunday, fratello di Eli. Alla prima sequenza interpretata da Dano nei panni di Paul, Anderson decise di impegnarlo anche nel personaggio del fratello – ovviamente gemello – il che dette all’attore pochissimo tempo per preparare la parte. Con questo si vuole sottolineare il grandissimo talento di Dano, solo apparentemente oscurato dal divorante Day-Lewis, che incarnando Eli Sunday dà vita a un personaggio complesso, fragile ed esaltato al tempo stesso.
Il plot si snoda a cavallo fra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, dunque un turning point di particolare rilevanza: Daniel Plainview (come spesso accade nelle opere del regista, il protagonista ha il nome di battesimo dell’attore e il cognome rispecchia, in estrema sintesi, un tratto caratteriale saliente del personaggio) è un minatore, che scopre del petrolio durante uno scavo. L’ambizione e l’avidità lo renderanno ricco, disperatamente solo e, infine, irrimediabilmente danneggiato dall’alcool e da una serpeggiante follia. In seguito alla morte di un operaio, decide di occuparsi dell’orfano (Dillon Freasier), che porta con sé agli incontri d’affari presentandolo come H.W. Plainview e socio dell’impresa petrolifera, nonostante sia un bambino, una mossa astuta per far presa sui potenziali business partners mostrandosi come “a good family man”. Figliastro che è figura di comodo, apparentemente amato per colmare il vuoto di una solitudine inesorabile, figlio “adottato” dunque, non sangue del suo sangue: una della tante sfaccettature che la simbologia del sangue, così prepotentemente presente nel titolo originale, assume nel corso del narrato. Dal plasma che schizza sul volto di Plainview alla morte del trivellatore fino al sangue nella sua sacralità, quel Sangue di Cristo invocato durante il battesimo di Daniel per mano di Eli, mentre l’inno “There’s power in blood” viene intonato, ossessivamente, in sottofondo.
La figura di Plainview, letteralmente “visione lineare” – così come chiarissimi sono i suoi obbiettivi di potere e denaro – rappresenta, come è già stato enunciato in più sedi, l’imperialismo americano, la brama dell’uomo che si è fatto da sé, quindi – come sempre in Anderson – il particolare si lega all’universale, il petroliere diventa simbolo non soltanto di una tipologia umana ma, a livello più ampio, di una precisa epoca storica e di un determinato spirito del tempo. Il neoricco, perennemente affiancato da un uomo di fiducia che è per lo più silente, presenza perpetua ma non incisiva ai fini della narrazione, riceve una visita da Paul Sunday, il quale sostiene che sotto la sua fattoria si trovi del petrolio. Plainview si reca dunque sul posto, a Little Boston, in California, incontrando così Eli, che biasima e attacca fisicamente il proprio padre per aver svenduto la proprietà e chiede una forte somma all’oilman, in quanto gli serve per la sua Chiesa. Plainview pensa di poter comprare tutto e tutti col suo denaro, estendendo una rete stradale e inglobando tramite l’ acquisto tutto ciò che può intralciare i suoi progetti.
Subentra un’altra tematica fondamentale del film, ossia quella del doppio: i gemelli Sunday, Daniel ed Eli che sono due personaggi in apparenza distantissimi, in realtà speculari, la stessa personalità di Plainview che, bottiglia dopo bottiglia, diviene sorta di doppelganger di ciò che era, un se stesso peggiore. L’arrivo di Henry (Kevin J. O’Connor, che tornerà in The Master), millantatore che fa credere a Daniel di essere il suo fratellastro, inizialmente inebria il protagonista, che vede nel fratello una parte di sé e, nuovamente, un antidoto a quella solitudine del potente, a quell’isolamento di chi si colloca al di sopra degli altri, agognato e al tempo stesso respinto. Di grande rilevanza è un dialogo tra i due, che si colloca quasi esattamente a metà film, a sottolinearne la centralità: tra un bicchiere e l’altro, Daniel dichiara il suo disprezzo verso il prossimo, la sua rabbia, una misantropia che pare non avere soluzione. Egli è condannato a essere solo, e firma la propria condanna: allontana il figliastro ancora piccolo, divenuto sordo dopo uno scoppio in un pozzo petrolifero, che tornerà da lui in età adulta, trovandolo anziano e consumato dagli alcoolici, per sentirsi definire, in un ossessivo loop verbale, “a bastard in a basket”, un bastardo in una cesta.
Nel rapporto con Eli Sunday si può ritrovare il cuore pulsante del film, avversario che Plainview sottovaluta, contrapponendo il proprio ateismo (o meglio, un profondo individualismo che lo rende Dio di se stesso) all’esaltazione religiosa del giovane, che presiede liturgie dalla teatralità eccessiva, stordendo gli abitanti con una parola divina strillata: la follia alberga anche in Eli, ma ha un volto diverso, è selvaggia fissazione messianica, prima della dissolutezza in cui sprofonderà. L’importanza del giovane Sunday si ingigantisce inquadratura dopo inquadratura, scontro dopo scontro, fino a rendere evidenti le comunanze tra i due; la sete di potere di Plainview è sia materiale che interiore, egli usa il denaro (e il potente mezzo del petrolio) come veicolo per essere al di sopra di tutti. Eli Sunday ha la medesima brama, mascherata dietro a un fanatismo religioso posticcio ed eccentrico.
L’incipit e il finale di There Will Be Blood segnano altri due momenti cardinali nella costruzione (e nella chiusa) del racconto: il film si apre nel silenzio della miniera, interrotto solo dal rumore metallico dei macchinari e la prima parola, il “no!” di Plainview rimasto ferito dopo una caduta, giunge a 5 minuti dall’inizio. Una quiete angosciante, un silenzio che isola, quella stessa assenza di suono che sarà il destino di H.W., il quale, a differenza del padre, si sposerà, peraltro con la sorella di Eli e Paul conosciuta nell’infanzia, andando dunque incontro a una vita normale.
Il finale dell’opera ne è anche il climax: nella magione di Plainview, nella sala da bowling dalle simmetrie Kubrickiane, caratteristica che Anderson avrebbe voluto accentuare dipingendo l’intero spazio di bianco, il che non si rivelò possibile in quanto la villa sarebbe stata venduta dopo le riprese. A distanza di anni, Eli si ripresenta all’uomo e l’epilogo è tanto tragico quanto inevitabile, per certi versi prevedibile, tristemente inesorabile: vi sarà del sangue, anche questa volta.
Non è secondario notare che il doppiaggio italiano ha snaturato il senso dell’ultima frase del film, una frase breve ma emblematica dell’intera narrazione, un’asserzione che può avere più significati, mortificati da una traduzione poco accorta.
There Will Be Blood è dedicato alla memoria di Robert Altman, spirato nel 2006, maestro a cui Anderson è stato spesso accostato: un omaggio che giunge proprio nel film meno vicino ad Altman.
Una pellicola che si può definire doverosa e obbligatoria, un punto di snodo che non interrompe la continuità del discorso filmico del geniale Anderson: una visione profondamente umanistica per un Plainview quasi grottescamente inumano, ma in primis, come tutti i personaggi andersoniani, irrimediabilmente e profondamente solo. Un capolavoro contemporaneo.
Chiara Pani