Personaggi in cerca d’autore
Fa una certa impressione pensare a Magnolia (1999) e riflettere sul fatto che già oltre quindici anni sono trascorsi dalla sua uscita. Molto perché trattasi – come sempre accaduto con il cinema di Paul Thomas Anderson – di un’opera autenticamente priva di riferimenti temporali, figlia di uno scorrere del tempo così veloce da fagocitare i personaggi del film per buona parte della sua durata. Ma anche perché è proprio con Magnolia che si definiscono definitivamente i contorni autoriali di P.T. Anderson, dopo il successo di Boogie Nights unanimemente considerato uno dei giovani cineasti statunitensi del futuro. Un futuro che ora è passato, visto che il cineasta losangelino è ormai uno dei grandissimi nomi della cinematografia mondiale. Definiamola una sorta di predestinazione, insomma. Ed è proprio il Destino – quello con la D maiuscola, strettamente apparentato ad una casualità altrettanto bizzarra e imprevedibile – a fornire le coordinate per muoverci attraverso l’ordito labirintico elaborato da Paul Thomas Anderson in Magnolia. Un’opera-contenitore dove tutto è presente e tutto rifugge, perché trattando di emozioni primarie risulta impresa in partenza impossibile catalogarlo, dall’esterno, in qualsivoglia genere. Un collage di numerose storie che mescolano dramma, commedia e melodramma, perlomeno a livello cinematografico. Ma il limite è inadeguato: Anderson guarda in faccia la vita vera, con rispetto e un po’ di timore. Allora solamente sfondando le barriere e fondendosi con lo schermo si avverte nitidamente il desiderio, la rabbia, la frustrazione, la sete d’amore che provano i personaggi di Magnolia. Tanti. Troppi per poter essere definiti un semplice parto di sceneggiatura, ovviamente scritta dallo stesso regista. Una coralità di storie che alla fine confluiscono in una sola: la nostra. Poiché in fondo l’esistenza riserva denominatori comuni a qualsiasi latitudine geografica e in qualsiasi tempo.
Già dal prologo, Magnolia palesa la sua natura di oggetto cinematografico non identificabile. Tre episodi del passato in cui, appunto, il Destino entra a gamba tesa sulle vite di uomini e donne. P.T. Anderson vuole preparare lo spettatore mediante la narrazione pura di tre storie ai confini del credibile. Al pari di ciò a cui assisterà in seguito. E tuttavia, alla fine dell’esperienza, l’insieme apparirà più vero del reale, nonostante il famoso evento biblico del finale, catartico e risolutivo. Questo perché Magnolia è fondamentalmente un film sull’amore, presente a fianco di tutti i personaggi come un ombra fortemente agognata. Forse un’utopia da raggiungere, in qualche modo. Tutti i personaggi protendono verso di essa. Qualcuno lo fa nel modo giusto, quasi tutti in quello sbagliato, anche perché costretti dai casi della vita. Magnolia si interroga in prima persona su questo arcano. Il film è vitale, insinuante. Paul Thomas Anderson è lì, possiamo quasi intravederlo a dibattersi vicino alle persone che mette in scena in un palcoscenico enorme. Cinema umanista se mai è stato possibile associare ad un film tale definizione. C’è l’infermiere Phil Parma (un Philip Seymour Hoffman che stringe il cuore, soprattutto ora che se ne è andato) il quale accudisce amorevolmente Earl Partridge (ultima interpretazione del grande Jason Robards), ricchissimo patriarca in malattia terminale. A posteriori, realtà e finzione ancora una volta si fondono, formando un nucleo indistinguibile come nelle intenzioni di Anderson. Un figlio abbandonato di Earl si palesa all’orizzonte. Frank T.J. Mackey (Tom Cruise, in una delle sue più intense interpretazioni) è un guru del sesso maschilista in apparenza portatore di inoppugnabili verità. Conoscerà anche lui le infinite sfumature della vita. Linda Partridge (una fulgida Julianne Moore) è l’ultima moglie di Earl, adultera innumerevoli volte. Adesso non riesce a vederlo morire, perché si è accorta di amarlo più di ogni altra cosa. Tenta il suicidio. L’amore che si palesa attraverso la morte: siamo in territori rischiosi che discettano sui massimi sistemi in ultimissima ratio. Poi c’è la popolarità televisiva che distrugge. Ne sono vittime il piccolo Stanley Spector (Jeremy Blackman), piccolo divo di un telequiz vessato da un padre arrivista, e soprattutto Donnie Smith, uomo di mezza età omosessuale che è stato bimbo prodigio di una trasmissione agli albori della televisione. L’illusione catodica miete solo vittime, dirette o indirette. Tipo Claudia Wilson Gator (Melora Walters, in eterno ricordata per lo sguardo in macchina che chiude il film) figlia molestata di Jimmy Gator (il grande Philip Baker Hall di Sydney), giustappunto celeberrimo presentatore del telequiz in cui è impegnato Stanley Spector. In mezzo a tale coacervo di storie e pulsioni ecco Jim Kurring (un perfetto John C. Reilly), poliziotto un po’ goffo ma deciso a mettere ordine nella vita propria e altrui. Donando amore, non ci credereste.
Paul Thomas Anderson è di un’abilità sconvolgente nel tendere le rispettive vicende narrative fino al punto massimo di tensione. La macchina da presa pedina, bracca i personaggi in un tripudio di carrelli e piani sequenza fino a coglierne l’essenza. Momento clou: la struggente canzone di Aimee Mann – i cui altri testi in musica punteggiano meravigliosamente l’intera pellicola – Wise up di cui tutti i personaggi, a turno, cantano una strofa. La pioggia di rane finale arriva, deus ex machina e non piaga punitiva, a svelare le ultime verità sepolte, a spazzar via le ipocrisie rimaste. Una rana colpisce Jimmy Gator nell’atto di espiare il senso di colpa nel suicidio. Il colpo di pistola finisce sul televisore di casa, frantumandolo. Il Cinema, signori. Irraggiungibile medium artistico per immagini versus veicolo di contagio dell’omologazione di massa. Magnolia, ora, ha messo a nudo situazioni e persone. Anche chi guarda, trascinato dentro in virtù della semplice forza del Cinema. Sempre lui; ma stavolta con i segni inconfondibili di un giovane cineasta – Paul Thomas Anderson ha ventinove anni, quando gira Magnolia – ancora alla ricerca di un senso compiuto. Nella sua esistenza e nella sua arte. I paragoni con Robert Altman si limitano, appunto, alla coralità estrema del racconto, non certo alla partecipazione emotiva dell’autore. Il distacco entomologico dalla diegesi arriverà in seguito, nella filmografia di Paul Thomas Anderson; ben visibile in altri e differenti capolavori. Intanto correva l’anno 1999, che solo venticinque anni prima ispirava serie fantascientifiche. E Magnolia arrivava su schermi cinematografici mai abbastanza grandi per contenere una maestosa opera “larger than life”. I detrattori si accaniscono tuttora proprio su quest’aspetto, ma l’opera terza di Paul Thomas Anderson, da qualunque angolazione la si osservi, è un diamante grezzo, purissimo cinema di ricerca emozionale a trecentosessanta gradi di una generosità incommensurabile come mai più sono stati realizzati, persino dal suo stesso autore. Nonché un fantastico ricordo, adesso.
Daniele De Angelis