Napoli come lezione di antropologia
Pare che la stampa italiana, abbacinata da altro, attenda al varco qualsiasi film di Paolo Sorrentino al solo scopo di trattarlo con quel mix di sufficienza e irritazione che, peraltro, non ci sembra avere riscontri all’estero; laddove, per esempio, di un’opera come Parthenope sono stati invece colti, sin dalla sua presentazione a Cannes (con una vistosa eccezione, rappresentata nella circostanza da Le Monde), sia la forza ammaliatrice che le diffuse note amarognole, tese qui a sostanziare un discorso filmico vacuo solo in apparenza (permettete anche a noi di giocare un po’ con le parole). Su IndieWire, tanto per dire, si poteva per fortuna leggere: “Una volta ancora il regista ritorna con un estasiante, sontuoso film che fa cadere i confini tra il sacro e il profano fino al punto che il sesso viene inteso come una religione e il suo opposto. Una volta di più è spinto dalle sirene della gioventù e della grande bellezza”. Ecco, peccato che la critica più in voga dalle nostre parti non sembri più in grado di proporre simili intuizioni, ossia di captare istintivamente la natura paradossale di un debordante lungometraggio che circumnaviga l’idea di Bellezza, schiaffandone l’essenza stessa in faccia allo spettatore, per poi lasciare amaramente che le forze più oscurantiste presenti nella società contemporanea la corrodano, la sviliscano, la mettano alla berlina, tentino infine di relegarla in soffitta a vantaggio di una “medietà” più omologata e rassicurante.
E perciò non ci stupisce un granché che proprio a Roma, divenuta anni fa il set de La grande bellezza, si percepissero al termine dell’anteprima per la stampa determinati umori, perfettamente incarnati da qualche sorrisetto sarcastico e dai primi commenti al vetriolo, alcuni dei quali curiosamente volti a sottolineare in negativo ciò che, a nostro avviso, è proprio uno dei punti di forza dell’opera: le schermaglie verbali inerenti all’antropologia culturale, di cui sono protagonisti i personaggi di Silvio Orlando e Celeste Dalla Porta/Stefania Sandrelli. Se ne potrebbe parlare anche così, di Parthenope: come di un’eccentrica lezione di antropologia applicata al cinema. Il testo su cui preparare l’esame in questo caso è Napoli. E qui in un certo senso il cerchio si chiude, dato che quest’ultima fatica cinematografica di Sorrentino finisce bene o male per risultare complementare a È stata la mano di Dio, film magari più personale, più stratificato nella memoria, ma che fa ugualmente ruotare attorno al capoluogo campano e ai suoi personaggi un’inquietudine e un desiderio di (im)possibile catarsi che vanno decisamente oltre.
Altro elemento costantemente dibattuto: c’è Fellini in filigrana, nelle scelte più iconiche del cinema di Sorrentino? C’è e non c’è. Nel senso che quella vena surreale così cara a Federico Fellini fa capolino in Parthenope anche più del solito, con all’inizio la folgorante epifania della carrozza settecentesca trasportata per mare, più avanti la destabilizzante riscrittura dell’immaginario cattolico affidata al sangue di San Gennaro e – soprattutto – alla memorabile figura del Vescovo Tesorone, cui Peppe Lanzetta ha saputo conferire una fisicità straordinaria. Quella tra Corpo e Anima, del resto, è una possibile diatriba, o per meglio dire una tensione dialettica intrinseca alla filmografia del buon Paolo, che lui già in Youth – La giovinezza era riuscito a estrinsecare e trasfigurare, dando vita a sapidi contrasti e sottili provocazioni estetiche.
Detto questo, dovrebbe apparire più chiaro che Sorrentino riprenda l’immaginario felliniano ma al contempo lo faccia suo, lo porti esattamente dove vuole lui. Ovvero verso un apologo sull’innocenza (riprendendo magari anche qui suggestioni felliniane, da ricondurre però alla propria sensibilità) brutalizzata e sulla Bellezza sottoposta anch’essa a costanti minacce, quelle di una Modernità che non fa sconti a nessuno.
Un tempo poi il grande cinema scopriva volti, talenti. Sorrentino qui lo ha fatto con la sensuale e al contempo angelica Celeste Dalla Porta, attrice emergente chiamata a impersonare con grazia e sfrontatezza la Parthenope adolescente e poi giovane donna. Nei suoi lineamenti apollinei e nel fisico scultoreo l’autore ha voluto condensare il mistero di un Eros talmente sfacciato da creare turbamento in chiunque la incontri. Ma a questa disarmante Bellezza il regista campano ha voluto poi abbinare una curiosità intellettuale, uno spirito critico e una volontà di approfondire l’animo umano, che in spasimanti, ammiratori e in qualsiasi altro interlocutore tendono a generare uno sconcerto persino maggiore…
Intessuto di aforismi e lapidarie parabole, il caleidoscopio che ruota attorno a lei vive perciò di incontri coi personaggi più disparati, dal già menzionato Tesorone alla smunta insegnante di recitazione ed ex diva Flora Malva, impersonata nella sua decadenza da Isabella Ferrari; dall’irruenta Greta Cool star napoletana emigrata a Milano, il cui sferzante monologo sulla città d’origine viene affrontato da Luisa Ranieri con una verve incredibile, fino all’inquieto scrittore omosessuale in balia dell’alcol e di una profonda crisi esistenziale John Cheever, il quale, grazie anche alla magnifica prova di Gary Oldman, ci ha ricordato un po’ le smaliziate apparizioni di Michael Caine e Harvey Keitel nel precedente Youth; dallo scontroso ma profondamente umano Professor Marotta (a.k.a Silvio Orlando) a un classico uomo di potere, il ricco pretendente che si palesa solo in elicottero, il cui svillaneggiare la Bellezza di fronte al secco ma garbato rifiuto di Parthenope è forse la più importante dichiarazione di intenti dell’intero script, sottolineata anche a livello registico da un piccolo “vuoto” nel quale la ragazza (assieme allo spettatore) si sente per un momento precipitare. Poiché a margine del confronto personale vi si può anche scorgere l’amaro ritratto di un’Italia (poco importa che il racconto si svolga in decenni ormai lontani, risultando adesso ancora più attuale) in cui ciò che è bello, onesto, sincero e di talento viene frequentemente “predato” da chi sta al potere, gente troppo spesso laida, mediocre e volgare.
Questa varia umanità, una fauna su cui la bella (e intelligente) Parthenope svetta quasi come una Dea, viene a comporre una sorta di “balletto meccanico” cui Sorrentino, a rischio di veder bollato come “estetizzante” il suo cinema, dà forma abbondando come di consueto in ralenti, sofisticate simmetrie, arditi carrelli, scenografie sgargianti. Alcuni storceranno ancora la bocca, di fronte a tutto ciò. Noialtri invece ne gioiamo senza falsi pudori, perché oltre a essere un “bel vedere” la così barocca costruzione dell’inquadratura lascia sovente scorgere il paradosso, l’anomalia, il canone proposto e poi ribaltato. Come nella sconcertante presentazione del figlio disabile del Professor Marotta (“è bellissimo”), sulle cui sembianze ovviamente glissiamo per non togliere a nessuno il gusto della sorpresa; un momento, questo, che qualcuno sicuramente troverà eccessivo, persino “trash”, ma che a nostro avviso è il culmine del teorema sulla percezione della Bellezza costruito in forma impercettibilmente Zen da Paolo Sorrentino. E non solo in questo film!
Stefano Coccia