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Midwives

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VOTO: 7,5

Venuti al mondo

Qualche annetto è trascorso da quando alla 52esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro abbiamo potuto ammirare Les ogres, la straordinaria e bellissima opera seconda di Léa Fehner, regista e sceneggiatrice francese della quale avevamo già avuto modo di apprezzare alle Giornate degli Autori di Venezia 2009 l’esordio Qu’un seul tienne et les autres suivront. Ma nonostante sia passato del tempo da quella folgorante visione, l’eco e il ricordo della potenza narrativa, drammaturgica, visiva e interpretativa di quella pellicola è ancora viva e forte nella mente e nel cuore di chi come noi ha avuto la fortuna e l’opportunità di incrociarla. Da quel momento abbiamo atteso con una curiosità via via crescente il ritorno della cineasta di Tolosa, un ritorno per il quale ci sono voluti sette anni. A giudicare da quanto portato sullo schermo nel suo terzo film che risponde al titolo Midwives (Sages-femmes), dobbiamo dire che è valsa la pena aspettare, con l’autrice che per dare forma e sostanza alla sua nuova fatica dietro la macchina da presa ha affrontato una lunga e approfondita fase di preparazione all’interno dei reparti di maternità in diversi ospedali pubblici del suo Paese. Una fase, questa, trascorsa a osservare attentamente ciò che accade in quelle strutture dal punto di vista delle ostetriche, ma anche del personale e di alcuni genitori dei neonati. Un periodo nel quale la regista per documentari ha realizzato delle interviste e fatto turni di dodici ore, compresi quelli notturni, al fine di capire ascoltando, ma anche toccando con mano, il lavoro, vivendo situazioni normali e quotidiane, ma anche estreme.
Tutta questa meticolosa preparazione è poi confluita nella scrittura prima e nella trasposizione poi di Midwives, un film che ci porta al seguito di due giovani ostetriche alle prime armi di nome Louise e Sofia che, dopo cinque anni di formazione e tirocini, iniziano finalmente a lavorare in reparto, accettando grandi responsabilità in un mondo in cui affrontano freneticamente nascita, maternità e talvolta anche morte. Un mondo caratterizzato dal caos di una professione stressante, dove il confine tra gioia e dramma è molto sottile. Riuscirà la loro vocazione a resistere a una simile tempesta? La risposta ovviamente la lasciamo alla visione di un’opera che ha avuto il suo primo vagito nella sezione Panorama della 73esima Berlinale per poi approdare sugli schermi di Lecce nel concorso del 24° Festival del Cinema Europeo, dove ha vinto l’Ulivo d’Oro per il miglior film. Ed è qui che abbiamo potuto recuperare e apprezzare questa nuova ed emozionante pellicola firmata dalla regista francese, che continua a raccontare storie che dimostrano la sua fascinazione e ossessione per le domande sulla collettività e sul gruppo. L’idea di comunità è infatti al centro del suo cinema e Midwives in tal senso è un’ulteriore capitolo di un discorso personale che l’ha portata precedentemente a immergere gli spettatori di turno in micro e macrocosmi come quelli di una compagnia teatrale in Les ogres o di un parlatorio di una prigione in Qu’un seul tienne et les autres suivront.
Con il medesimo modus operandi, ossia quello di un approccio alla materia, all’ambientazione e alle figure che lo popolano di tipo semi-documentaristico (la mente torna a De chaque instant di Nicolas Philibert), la cinepresa della Fehner stavolta ci porta in un reparto di maternità di un ospedale pubblico per seguire la progressiva perdita d’innocenza delle due giovani protagoniste e la loro crescente professionalità. Lo fa però con un film di finzione che spicca per la grandissima capacità di penetrare in un macrocosmo raccontandolo dall’interno con verità e un forte realismo. Con gli occhi spalancati sulla realtà, l’intensità e il sangue freddo richiesti da questa professione, l’autrice con la complicità in fase di scrittura di Catherine Paillé restituisce sullo schermo il dinamismo richiesto dal mestiere e va dritto all’essenziale entro i limiti imposti dal genere cinematografico ospedaliero dove le regole d’ingaggio richiedono spazi ristretti, il rispetto quasi documentaristico per le attività e l’atmosfera del mondo medico. Di fatto ci troviamo dunque al cospetto di un romanzo di formazione incastonato all’interno di un classico medical-drama. Con e attraverso i temi e gli stilemi dei filoni chiamati in causa, il contributo di attori di grande bravura, credibilità, verità e intensità (tra cui Khadija Kouyaté e Héloïse Janjaud), e una cinepresa a mano che sta attaccata ai personaggi in un asfissiante pedinamento tra corridoi, spazi comuni e sale operatorie, la regista metti in quadro un’opera che fa di un mix di emozioni cangianti e contrastanti il proprio motore portante. Il tutto iniettando nel film, che a suo modo vuole essere un atto di denuncia nei confronti delle condizioni di lavoro nei reparti di maternità francesi, anche un po’ di umorismo per stemperare ed evitare un eccesso di drammaticità.

Francesco Del Grosso

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