Affetti viandanti
“Gli ultimi saranno i primi” è proprio il caso di dire. Del resto, difficilmente i detti popolari sbagliano e il palmares della 52esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema lo conferma ancora una volta con la vittoria del Premio Lino Miccichè assegnato a Les ogres, già vincitore una manciata di mesi fa del Big Screen Award al Rotterdam International Film Festival. L’opera seconda di Léa Fehner è stata, infatti, l’ultima in ordine di tempo ad essere programmata nell’arco della nove giorni pesarese. Coincidenza oppure no, quello attribuito al film è un riconoscimento strameritato.
Detti a parte, la pellicola della regista francese è un autentico colpo al cuore, un tuffo cinematografico in un fiume di emozioni a getto continuo. Il tutto scaturisce da un flusso narrativo dal ritmo sostenuto e incalzante, che concede allo spettatore di turno poche soste lungo il generoso tracciato della timeline. Viene da sé che i 144 minuti di durata, da interminabili, si trasformino allo scorrere dei titoli di coda in una folata di vento, in un bicchiere d’acqua fresca da bere tutto d’un fiato. Ciò non toglie che una ventina di minuti in meno avrebbero giovato alla causa, rendendo ancora più fruibile una visione che resta comunque piacevolmente scorrevole. Ci rendiamo conto, però, che la tanta carne messa al fuoco in termini drammaturgici, necessitava di un racconto dal respiro ampio, in grado di raccogliere la grande mole di situazioni ed eventi previsti dallo script.
La platea si trova al cospetto di una dramedy on the road in salsa transalpina dove le continue accelerazioni e decelerazioni del ritmo rappresentano il motore portante di un ingranaggio che funziona a meraviglia, dove tutto è al posto giusto e contribuisce a rendere l’intera opera uno spettacolo per gli occhi e le orecchie. Show, cinematograficamente parlando, al quale contribuiscono molti degli elementi strutturali, drammaturgici e tecnici, che operano davanti e dietro la macchina da presa.
Oltre al mirabile lavoro di scrittura, caratterizzato da un impianto dialogico frizzante e da un sapiente cambio improvviso dei registri (si passa dal serio al faceto in un battito di ciglia), è la prova corale di un cast in stato di grazia, nel quale si fa davvero fatica a individuare la punta di diamante, a rappresentare il valore aggiunto. La vera forza de Les ogres sta proprio nel collettivo. A quest’ultimo la Fehner si affida completamente per dare forma alla vivace e variopinta compagnia del Davaï Théâtre, che per la tournée della stagione mette in scena Cechov viaggiando di città in città con il proprio tendone da circo. Si tratta di una turbolenta tribù di artisti nella quale il lavoro, i legami familiari, l’amore e l’amicizia si mescolano con veemenza, scavalcando i confini tra la finzione del palcoscenico e la vita reale. Un bambino in arrivo e il ritorno di una ex amante riapriranno vecchie tensioni.
Il risultato è un valzer di eventi che consentono alla regista di Tolosa di portare sullo schermo un pezzo di sé, ispirandosi direttamente alle esperienze vissute da bambina nella compagnia teatrale itinerante diretta dai genitori (il padre François, la madre Marion Bouvarel e la sorella Inès fanno parte del cast). Inevitabile che questa profonda conoscenza del suddetto mondo, delle sue dinamiche e delle sue regole, abbia aiutato la Fehner a rendere il film, il racconto e tutti coloro che lo animano, straordinariamente veri. Speriamo che tutto questo serva anche a spingere qualche distributore nostrano a portalo nelle sale italiane, perché il non farlo sarebbe davvero una grave perdita e l’ennesima occasione mancata.
Francesco Del Grosso