Sono innocente perché sono innocente
Il 2023 è stato per Cédric Kahn un anno senza alcun dubbio tra i più prolifici e fortunati della sua carriera con ben due pellicole che ne portano la firma ad aver visto il buio della sala, prendendo parte ad altrettante vetrine di grandissimo prestigio come Cannes e Venezia. Se al Lido ha accompagnato fuori concorso una commedia dai toni leggeri come Making of, qualche mese prima il più impegnativo The Goldman Case (per l’uscita italiana Il caso Goldman) lo ha visto calcare il tappeto rosso della Croisette in occasione dell’anteprima mondiale quale film d’apertura della Quinzaine des Réalisateurs, cambiando completamente genere e registro.
Con la seconda pellicola, presentata nel concorso internazionale della 33esima edizione del Noir in Festival, il regista francese torna a concentrarsi sulla storia e sulla cronaca rievocandone un’altra pagina importante. Lo fa partendo da una vicenda realmente accaduta che divise la Francia, quella di Pierre Goldman e del processo a suo carico andato in scena nel 1976, con il noto attivista di estrema sinistra di origini ebreo-polacche accusato di quattro rapine. Ad aggravare la situazione, una di queste aveva provocato la morte di due persone. L’imputato si proclamò innocente, diventando in poche settimane l’icona della sinistra intellettuale. Da una parte chi lo riteneva un criminale senza legge e dall’altra un giovane testardo perseguitato da uno Stato di polizia razzista. Fu assolto per non avere commesso quei delitti, per poi essere assassinato tre anni dopo in un agguato in una strada di Parigi rivendicato da uno sconosciuto gruppo d’estrema destra.
Da questi eventi reali con la complicità in fase di scrittura di Nathalie Hertzberg, il regista estrae la sostanza pura, senza mai allontanarsi dalla battaglia legale e infatti il racconto resta circoscritto alle udienze del processo e si ferma alla lettura della sentenza. Il prima e il dopo viene affidato ai volumi di Storia e a una successione di didascalie che riassumono quanto accaduto nei titoli di testa e di coda del film. A quest’ultimo il compito invece di ricostruire con la precisione, la freddezza, il rigore formale e la fedeltà che sarebbero tipici di un documentario gli highlights di quanto consumatosi nell’aula di tribunale che ha fatto da cornice al processo. Ne viene fuori una narrazione asciutta e senza fronzoli, caratterizzata da una cronaca chirurgica e dettagliata dei passaggi salienti, animati da un botta e risposta tra accusa e difesa di grandissima tensione e altrettanto realismo. Si assiste così all’interrogato dal presidente, alle testimonianze del padre dell’imputato, della sua compagna di origine guadalupe, della psicologa responsabile del caso, dei sei testimoni della rapina, di due commissari, del suo ex capo della guerriglia rivoluzionaria in Venezuela, e dell’uomo che gli ha fornito un alibi. Si passerà poi a requisizioni, memorie e verdetto. Il tutto intervallato da tre sospensioni dell’udienza e molteplici sfoghi del protagonista, acclamato a gran voce dai suoi sostenitori e tenuto calmo, per quanto possibile, dai suoi avvocati.
Combinando il ritratto biografico e il period-drma con il film procedurale, Kahn porta sullo schermo un legal-thrillerche rende giustizia al genere di riferimento e a quelle opere che gli hanno dato lustro in passato come ad esempio Il cliente, piuttosto che Il socio, L’uomo della pioggia e il più recente Il processo ai Chicago 7. Incasellato in un 4:3 che assomiglia a una gabbia, impresso nei fotogrammi con una grana vintage e una fotografia satura, The Goldman Case spicca per la magistrale interpretazione del suo protagonista, il belga Arieh Worthalter. Ma lui è solo la punta di diamante di un ensemble recitativo di altissimo livello, reso possibile da una prova corale sapientemente orchestrata da Kahn, che a sua volta ha fatto della direzione degli attori e della camaleontica resa estetico-formale della sua regia i suoi marchi di fabbrica.
Francesco Del Grosso