Il triangolo no, in barca non l’avevo considerato
Giovedì 16 novembre, sempre nell’ambito di CiakPolska Film Festival 2023, il pubblico del Palazzo delle Esposizioni si è potuto gustare sul grande schermo un altro esordio che fece epoca: quello di Roman Polański. Qualche giorno prima la rassegna Grandi classici del cinema polacco aveva proposto infatti Rysopis – Segni particolari nessuno (1964), lungometraggio d’esordio di un altro “enfant terrible” della Polonia di allora, Jerzy Skolimowski. E con Il coltello nell’acqua, venuto cronologicamente prima (titolo originale Nóż w wodzie, anno di realizzazione 1962), si può anche affermare che attorno a queste figure così “irregolari” il cerchio idealmente si chiuda, dato che al lungometraggio d’esordio di Polański offrì un contributo artistico importante lo stesso Skolimowski, nelle vesti di sceneggiatore.
Del resto tra le chiavi di lettura del tesissimo ma anche profondamente allegorico racconto cinematografico di Polański vi è pure un sottile anti-autoritarismo, predisposizione che con ogni evidenza entrambi i giovani cineasti sentivano forte nel proprio atteggiamento verso l’arte e verso la vita stessa. L’impatto di tale lungometraggio sull’immaginario dell’epoca fu subito notevole, considerando il Premio FIPRESCI raccolto a Venezia e soprattutto l’esser stato il primo film polacco ad avere una candidatura all’Oscar come Miglior Film Straniero (nell’anno, peraltro, in cui a vincere il premio fu 8½ di Federico Fellini), ma la sua fama è ulteriormente cresciuta nel corso del tempo, di pari passo con quella dell’autore.
A rivederlo oggi, Il coltello nell’acqua appare perfettamente calato nel clima di insofferenza giovanile della Polonia dell’epoca, ma aspira al contempo a una forma di atemporalità, per non dire di immortalità, nel carattere così archetipico dei personaggi e delle situazioni. L’incontro tra la coppia borghese apparentemente solidissima ma con tensioni sotterranee che emergeranno poco alla volta, ed il giovane selvatico nonché fuori da tutti i loro possibili schermi interpretativi, raccattato dai due mentre è intento a fare l’autostop, rappresenta in sé uno dei triangoli più emblematici, più riusciti dell’intera Storia del Cinema. Oltre a recare in sé, nel proprio DNA, molte delle aree tematiche successivamente esplorate dal cinema di Polański: il propendere verso un’idea di thriller non stereotipata, la crudezza nell’analizzare e scomporre il rapporto uomo-donna, le crescenti paranoie cui inesorabilmente va incontro un qualsiasi soggetto di estrazione borghese, più quel senso di claustrofobia dato dal coabitare in luoghi stretti o dal condividere comunque spazi vitali con persone nelle quali non si ripone completa fiducia.
In questo percorso di ridefinizione dei reciproci rapporti di forza, attuato durante quel lunghissimo segmento narrativo che vede i tre partire insieme per una gita in barca dagli esiti inaspettati, la bravura degli interpreti fa il paio con una regia già sorprendentemente matura, coadiuvata peraltro dall’impronta jazz delle musiche di Krzysztof Komeda, destinato a diventare uno dei collaboratori abituali di Polański. Vieppiù la presenza del coltello sull’imbarcazione, su cui eravamo tornati a riflettere (considerando certe beffarde analogie) allorché uscì un film per certi versi altrettanto seminale, ossia Funny Games (1997) di Michael Haneke, risulta un po’ totem, un po’ feticcio, un po’ larvale MacGuffin la cui repentina uscita di scena non sarà comunque immune da conseguenze. Portando anzi alla definitiva deflagrazione della coppia borghese. Anche se poi la cura formale e gli intenti narrativi della pellicola comparivano nitidamente sin dalle battute iniziali. Ne era già foriero, insomma, quel prolungato camera car in cui dall’alternarsi di luci e ombre sul volto della coppia sposata, come pure dal cambio improvviso alla guida del veicolo, l’aurorale poetica di Roman Polański acquisiva subito un appeal personale e pressoché inedito.
Stefano Coccia