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Sopravvissuti

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VOTO: 7

Braccati

Se non si avvicinassero sinistramente alla realtà, sarebbe forse un sollievo giudicare alcuni film come distopie più o meno fantasiose. Nel caso di White Paradise – ma il titolo originale francese, Les survivants (I sopravvissuti), rende meglio l’idea alla base del film, giustamente ripreso dalla titolazione italiana – opera prima di Guillaume Renusson e lungometraggio d’apertura in concorso al RIFF 2023, siamo certamente dalle parti del meno, alla voce immaginazione.
Il corpulento Samuel (sempre eccellente Denis Ménochet) , in riabilitazione a seguito di un incidente stradale che è costato la vita a sua moglie, decide di ritirarsi qualche giorno nello chalet alpino di sua proprietà, sul versante francese. Una volta giunto sul posto vi trova una giovane donna afgana Chehreh (Zar Amir Ebrahimi, molto efficace), in fuga dalle forze di polizia anti-immigrazione. La donna, un’insegnante, fugge spaventata. Samuel la segue. Non sanno ancora che, per entrambi, un’autentica odissea è proprio dietro il fatidico angolo delle vette innevate.
White Paradise si apre con una sequenza di guerriglia, tanto per chiarire le intenzioni di Renusson, anche sceneggiatore del film con Clément Peny. Una guerra invisibile che non fa notizia, combattuta da chi arriva in Europa per la sopravvivenza – ed è il caso di Chehreh – o per migliorare le proprie condizioni di vita opposta alle dure politiche anti-migratorie dei vari paesi. Una follia che farebbe comodo ritenere assurda, nonostante l’opinione pubblica venga bombardata quotidianamente di notizie ancora peggiori. La fuga dell’improvvisata coppia declina rapidamente verso il thriller una volta che i due si affacciano sul versante italiano, dove ad attenderli c’è un terzetto di “vigilantes” pronti anche ad uccidere per non permettere l’ingresso di clandestini in Italia. A questo punto la finzione di White Paradise dovrebbe lasciare il posto alle coscienze individuali di ogni spettatore. Un discorso del genere può essere considerato un’iperbole narrativa oppure qualcosa di verosimile, se non realistico? Ciò che appare certo è che Renusson ha ben fiutato l’aria che tira, nel suo e nel nostro paese. Facendo diventare il suo esordio un gioco al massacro ricco di genitori cinematograficamente illustri (l’ineluttabilità della violenza come in Cane di paglia di Sam Peckinpah; ma anche, tornando a ritroso nel tempo, La pericolosa partita (1932) di Ernest B. Schoedsack e Irving Pichel, indimenticabile saggio sul “divertimento” di uccidere) che forse fanno perdere un po’ di originalità al film ma al contempo tengono il pubblico avvinto alla visione al fine di scoprire il modo in cui evolverà la storia.
Il giudizio su White Paradise può dunque oscillare tra il coraggio del film di denuncia con invito implicito a guardare la questione migratoria con maggior raziocinio e la prevedibilità di un thriller che non esita ad andare ben sopra le righe con lo scopo di farsi seguire per tutta l’ora e mezza di durata. Nel dubbio però ci convince l’abilità di Renusson nel mescolare, nel proprio esordio, generi differenti arrivando a sfiorare l’horror e il melodramma romantico nonché a comporre un quadro dove la bellezza paesaggistica fa a pugni con la stoltezza umana. Per un’opera saggiamente sospesa tra pessimismo viscerale e barlumi di speranza dettati da una possibile unità d’intenti tra popolazioni di origine differente e tuttavia legate da un afflato umanista che appare, oggi come oggi, abbastanza utopistico.

Daniele De Angelis

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