Dalla teoria alla pratica
Che la realtà e la sua attenta osservazione rappresentino un pozzo inesauribile al quale attingere ce lo insegnano decenni di storia della Settima Arte attraverso coloro che lo hanno fatto teoricamente e praticamente. Per Jacques Tati: «la vita è un grande spettacolo e basta avere occhi per osservare», mentre per Zavattini l’obiettivo della macchina da presa si deve trasformare in un occhio che spia nelle serrature delle case, che corre e inciampa nelle strade, incontra persone e non personaggi. Per il regista, sceneggiatore, giornalista e teorico emiliano «il cinema deve comunicare attraverso il materiale che offre la realtà in cui s’imbatte, è un suo dovere storico ed estetico». Nicolas Philibert la lezione in questione l’ha fatta sua sin dagli esordi, facendo della realtà il baricentro e l’insostituibile compagna di viaggio della sua straordinaria produzione documentaristica. Opere come Nel paese dei sordi o Essere e avere lo testimoniano apertamente. Il regista francese ha fatto dell’osservazione del vero e dello sguardo puro, rigoroso e incontaminato, ma non algido e cristallizzato, poiché colmo e portatore sano di emozioni, il motore portante del suo cinema. Un modus operandi, questo, che resiste nel tempo e non è venuto meno neanche nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo De chaque instant, che dopo l’anteprima a Locarno 2018 è transitata nel concorso internazionale del 38esimo Filmmaker Festival.
Stavolta attinge ad un’esperienza personale che lo ha visto nel gennaio 2016 ricoverato con urgenza per un’embolia. Nel periodo trascorso in ospedale ha maturato l’idea di dedicare un film al mondo del personale sanitario, categoria questa spesso sottostimata e dimenticata, alla quale con De chaque instant rende un sentito e doveroso omaggio. Il progetto lo ha porta all’Istituto Croix Saint Simon di Montreuil per raccontare la dura, delicata e complessa formazione degli apprendisti infermieri. Per farlo ha suddiviso la timeline di questo ritratto corale e al tempo stesso intimo in un “concerto” in tre atti (teoria, pratica e resoconto), ciascuno incentrato su un aspetto ben preciso del percorso formativo, introdotto da un verso estrapolato da “Movimento e immobilità” di Douve di Yves Bonnefoy. Ciascuno ha un’anima, un colore, un respiro, un ritmo, un grado di empatia e delle caratteristiche proprie che indirizzano i singoli macro-segmenti a seconda dell’interesse e dell’attenzione del fruitore di turno, ma con dei tratti comuni nell’approccio stilistico e umano che fanno da leit motiv all’architettura nella sua interezza. Il tutto trovando un equilibrio magico tra ironia e dramma.
Come in passato, Philibert penetra in punta di piedi in un microcosmo topografico e umano per esplorarlo e guardarlo dall’interno senza cercare mai di strumentalizzarlo, amplificarlo, distorcerlo, violentarlo e più in generale senza alterarne gli equilibri, la natura e l’autenticità. Quello con il quale cattura è un occhio che non filtra ma che rispetta e preserva nell’atto di raccontare per immagini e parole, con una presenza quasi invisibile e mai invasiva. Nella scelta di non avvalersi mai (alla pari di Philip Gröning per il suo Il grande silenzio) di una colonna sonora per accompagnare o sottolineare determinati passaggi, lasciando alla presa diretta, ai gesti, ai silenzi e alle azioni dei tanti protagonisti il compito di raccontare, c’è la cartina tornasole di una volontà dell’autore di restituire sullo schermo un ventaglio di emozioni. In questo modo l’apparente banalità di un gesto come lavarsi le mani, l’incontro con la malattia, la sofferenza e la morte, conservano la medesima sacralità, cura e rispetto.
De chaque instant è un film di pedinamento che descrive e mostra una realtà per quella che è, con tutto la suo carico di fragilità, paure e umanità. Un pedinamento che si snoda, si articola e in certi casi si consuma nelle stanze, nelle aule, nei laboratori e nelle corsie di un luogo dove si fa pratica con i manichini e dove si impara ad accudire e curare delle persone vere. Le fasi dell’apprendimento mostrano il senso di un mestiere che non è limitato alla pratica della medicina, ma è improntato al rispetto dell’essere umano e strutturato da regole democratiche e inclusive, rigorosamente indipendenti anche da quelle dello Stato. Il risultato è un’opera che racconta con la giusta misura e distanza tale mestiere nel corso del suo apprendimento. Non tocca le vette raggiunte da gran parte delle opere precedenti di Philibert e di altri progetti più o meno analoghi che si sono cimentate nel raccontare la vita e il lavoro in strutture ospedaliere come Sala rossa di Saverio Costanzo, Hospital e Near Death di Frederick Wiseman, Urgences del connazionale Raymond Depardon o Szpital di Krzysztof Kieślowski, ma riesce comunque a regalare alla platea un documentario onesto che ci porta alla scoperta di una realtà alla quale viene concessa poca visibilità e un ritratto controcorrente della gioventù odierna.
Francesco Del Grosso