Requiem
Dal Forum della Berlinale 2016 al concorso della 34esima edizione del Torino Film Festival: ha viaggiato lungo questa prestigiosa direttrice festivaliera l’opera seconda di Joaquín del Paso, Maquinaria Panamericana. Nel mezzo la partecipazione ad altre importanti kermesse come quelle di Guadalajara, Raindance e Miami, dove ha raccolto consensi e riconoscimenti dalle giurie di turno. Questo perché si tratta di una pellicola che sa come lasciare il segno nella mente dello spettatore, mostrandogli e offrendogli nei novanta minuti circa di durata tutto il meglio di sé, ossia quella serie di qualità di scrittura e tecniche che traspaiono in maniera evidente sullo schermo. Ed è proprio su di esse che vogliamo soffermarci.
L’omonima officina meccanica che dà il nome al film di del Paso è un posto ideale per lavorare: si respira un clima perfetto, fra colleghi c’è armonia, i ritmi sono blandi e non si disdegna mai una pausa caffè. Il tutto sotto lo sguardo benevolo di Don Alejandro, il principale. Ecco perché trovarlo d’improvviso morto una mattina getta i dipendenti nel panico. Non solo i dipendenti perdono il miglior capo che esista al mondo, ma come ben presto scopriranno rischiano anche di perdere il lavoro, dato che la fabbrica è in bancarotta. A questo punto le soluzioni non sono molte, e la migliore sarebbe mantenere in vita Don Alejandro…
Quello al quale assistiamo è una sorta di requiem, eseguito e celebrato in memoria di un defunto, che nel caso di Maquinaria Panamericana non è solo il proprietario della struttura trovato morto, ma l’officina stessa nella quale ha investito tutte le sue ultime finanze, nonostante le ingenti perdite e i bilanci da anni in rosso. Quello che va in scena, nell’arco di una giornata e circoscritto tra le mura dell’officina, è un funerale in piena regola al quale, loro malgrado, saranno costretti a partecipare tutti i dipendenti, nessuno escluso, perché a morire sono anche le rispettive speranze di avere una vita stabile e un lavoro. Proveranno comunque a combattere, barricandosi nella struttura, come hanno fatto prima di loro i protagonisti di moltissimi altri film e documentari che raccontano le chiusure di fabbriche, come ad esempio il recente 7 minuti di Michele Placido. Nelle maglie della trama della pellicola del cineasta messicano, dunque, non è difficile andare a rintracciare macro-temi come la crisi imperante e la perdita del lavoro. Opporre resistenza e reagire all’incertezza del futuro, tra caos, logica e ingiustizia, diventa inevitabilmente l’unica strada possibile da percorrere, ma senza coesione non si va da nessuna parte, specialmente quando le individualità e gli interessi dei singoli fagocitano quelli della comunità e del gruppo. Ed è il cineasta stesso a confermarcelo nelle sue note di regia, che riassumono alla perfezione ciò che trasuda con forza e senza mezze misure dallo schermo: «il film è come la memoria di un mondo che sta scomparendo e una descrizione satirica di come vanno le cose in questo momento nel mio Paese e ovunque in generale. In Messico la situazione è così delicata, economicamente e politicamente, che le persone vivono in un costante regime di paura. Ci aggrappiamo con disperazione a ciò che abbiamo guadagnato e la sola idea di una nuova crisi porta al panico collettivo».
Maquinaria Panamericana si trasforma di conseguenza da dramma umano e collettivo a metafora sulla Società dei giorni nostri, sulle sue brutture, distorsioni e paure. Ma la Società è fatta di persone e l’uomo in certe situazioni restituisce il peggio di sé, lasciando che il lato oscuro distrugga tutto e tutti. Ed è quanto accade nel film di del Paso, con l’officina che diventa una cloaca, o meglio uno specchio che riflette tutto il peggio dell’Essere umano. Ogni cosa intorno ai protagonisti si avvia alla distruzione e crolla sotto i loro occhi, come era accaduto precedentemente agli inquilini di High-Rise e all’equipaggio di Ivy. Più chiaro di così si muore.
Francesco Del Grosso