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Bleed – Più forte del destino

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VOTO: 7.5

Ci vuole tanta pazienza

Gli habitué dello sport-drama sapranno sicuramente quanta e quale adrenalina può generare la visione di un film appartenente al suddetto genere. Sempre gli habitué sapranno anche quale livello di coinvolgimento e tipo di partecipazione emotiva possono raggiungere le pellicole iscrivibili al prolifico e ricco filone in questione. Sono queste le “armi” che abitualmente vengono utilizzate e sulle quali puntano i cineasti quando decidono di sposarne temi e stilemi che, infatti, restano quasi sempre invariati, in un rituale che da decenni si ripete puntualmente davanti ai nostri occhi. Belle o brutte che siano, riuscite oppure no, le pellicole ambientate nel mondo dello sport, che hanno portato e continuano a portare sul grande e piccolo schermo le incredibili e leggendarie gesta dell’atleta e della squadra di turno, hanno sempre un grande potere di fascinazione capace di attrare a sé l’attenzione della platea, indipendentemente dai gusti, dalle fasce d’età e dall’area geografica di appartenenza. Questo perché i temi trattati sono universali e gran parte delle dinamiche che vanno ad alimentare la narrazione sono state ormai ampiamente codificate dal pubblico. Non c’è, dunque, opera che non parli di redenzione, riscatto o desiderio ardente di salire sul gradino più alto del podio. Motivazioni, queste, che bastano e avanzano a dare forma e sostanza alla storia e alla one line del o dei protagonisti, spesso con delle sortite fuori dalla competizione sportiva chiamate a restituire il controcampo esistenziale e umano della vicenda. Si tratta di un copione che ci sembra di conoscere quasi a memoria, salvo quelle rare eccezioni nelle quali lo script prende strade inaspettate.
Se poi le gesta non sono il frutto dell’immaginazione di uno sceneggiatore, ma la vicenda narrata è il racconto della vita dentro e fuori dal campo di gioco di una persona realmente esistita, allora il carico di responsabilità aumenta in maniera esponenziale e con esso anche il pericolo di lasciarsi andare a una banale glorificazione o ancora peggio a un elegia in piena regola. Non è il caso di Bleed for This (nella titolazione italiana Bleed – Più forte del Destino), il biopic che Ben Younger ha realizzato sulla figura del pugile italo-americano Vinny Pazienza, presentato in anteprima italiana alla 34esima edizione del Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile e nelle sale nostrane con Notorius Pictures nel maggio 2017. Non lo può essere perché il boxer protagonista non è di quelli da prendere a modello, visti gli eccessi, i vizi e gli scandali che ne hanno segnato un percorso agonistico pieno di alti e di bassi. E la mente non può non tornare al Chuck Wepner di The Bleeder. Chi ne conosce la biografia non potrà che confermarcelo. Eppure c’è una fase nella sua carriera che ha contribuito a scrivere pagine importanti nella storia della boxe e dello sport in generale; pagine avvincenti e anche estremamente dolorose, che si sono trasformate nella materia narrativa e drammaturgica dello script firmato dallo stesso Younger. Il cineasta statunitense sceglie, dunque, di non coprire l’intera vita di Pazienza, ma di focalizzare l’attenzione su un arco temporale ristretto e ben preciso. Grazie alla disciplina impostagli dal suo allenatore, nel 1987 Vinny Paz diventa campione del mondo dei pesi leggeri e nel 1991 dei superleggeri. Ma un incidente d’auto lo lascia con il collo spezzato, e Vinny si sottopone alla tortura di un tutore e torna a combattere.
Bleed for This è la travolgente parabola dentro e fuori dal ring del celeberrimo pugile, ma anche l’avvincente racconto del miracoloso recupero fisico che lo ha visto protagonista. La timeline si spacca letteralmente in due macro-blocchi per portare sullo schermo questi due pezzi di storia, con il secondo che per commozione, ritmo e intensità lascia più il segno rispetto a una primo dove i suddetti elementi fanno maggiore fatica a materializzarsi. Ciononostante, l’opera terza di Younger mette a segno una dozzina di ganci ben assestati alla bocca dello stomaco dello spettatore, di quelli che ti lasciano a corto di fiato. Le sequenze pugilistiche non reggono sempre il confronto con quelle messe in quadro da un Michael Mann in Alì, da un Martin Scorsese in Toro scatenato o da un John G. Avildsen nel primo capitolo della saga di Rocky, ma danno comunque un contributo importante alla componente spettacolare del film, in particolare i dodici round tra Pazienza e il suo temuto sfidante, il panamense Roberto Durán Samaniego, detto “Manos de Piedra”.
Il lato migliore di Bleed for This è, però, un altro e va rintracciato nella grande art direction e soprattutto nella recitazione di due straordinari interpreti principali, ossia il Miles Teller di Whiplash e il sempre più presente Aaron Eckhart (visto recentemente anche in Sully), rispettivamente nei panni del pugile e del suo allenatore Kevin Rooney. Le loro performance davanti la macchina da presa sono il vero valore aggiunto dell’opera e probabilmente non sfuggiranno ai giurati dell’Academy, o almeno lo speriamo.

Francesco Del Grosso

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