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Les derniers parisiens

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VOTO: 7

Fidarsi è male, non fidarsi è meglio

Il trentenne Nasser torna a Parigi dopo essere stato in carcere. Su invito di Margot, l’ufficiale di libertà vigilata che lo segue, inizia a lavorare nel bar del fratello, Le Prestige, situato a Pigalle. Il rapporto tra i due uomini, però, è da sempre conflittuale e ci vorrà poco perché antiche ferite tornino a sanguinare.
Chi dopo aver letto la sinossi di Les derniers parisiens ha pensato a una qualche tipo di vicina o lontana assonanza con L’odio, allora quel qualcuno è completamente fuori strada e rimarrà profondamente deluso dalla visione, poiché la pellicola scritta e diretta da Hamè Bourokba e Ekoué Labitey è distante anni luce da quella firmata da Mathieu Kassovitz. Forse in una qualche misura può averne preso in prestito lo spirito ribelle e libero, lo stile e alcune tematiche, ma niente di più. Del resto, la pluri-premiata opera del 1995 ha influenzato lavori altrui ed è stato oggetto di attenzioni da parte di numerosi colleghi, connazionali e non. Fatto sta che quanto realizzato un ventennio fa circa da Kassovitz è diventato una sorta di pietra di paragone con la quale confrontarsi quando ci si misura con certi personaggi, storie e soprattutto ambientazioni. Di conseguenza, anche la coppia Bourokba-Labitey e il loro film ci hanno dovuto giocoforza fare i conti, nonostante le differenze drammaturgiche ed estetico-formali siano tanto sostanziali quanto evidenti. Ma era inevitabile che il pubblico e gli addetti ai lavori andassero a cercare un qualche appiglio per caricare di aspettative e di speranze l’operato dei due registi, presentato in concorso alla 34esima edizione del Torino Film Festival, dove si è aggiudicato il premio FIPRESCI.
A nostro avviso, i rimandi sono legati ad altro e dipendono da motivi di natura extra-cinematografici. L’esordio dietro la macchina da presa di due membri del gruppo rap francese La Rumeur (attivo dal 1997), che in patria ha subito perfino un processo per diffamazione da parte della polizia, ha rappresentato per gli autori un modo per dipingere sullo schermo con immagini e parole il loro modo, che poi è anche quello di tanta gente come loro. Non va scambiato per un manifesto o per un urlo di rivendicazione, perché non lo è e non ha alcuna presunzione di esserlo, piuttosto va visto come una fotografia personale della situazione attuale e di una condizione che Bourokba e Labitey conoscono perfettamente, perché la vivono dall’interno. I due sono parte attiva del tessuto sociale che raccontano, tanto da essere diventati in pochi anni una delle realtà più apprezzate e rispettate della scena hip hop nazionale, facendosi portavoce delle istanze delle periferie e di tutti i figli dell’immigrazione post-coloniale. I fratelli di origini magrebine che si contendono a Pigalle un bar in Les derniers parisiens, forse, sono le loro estensioni.
Sgomberati dal campo tutti quei confronti più o meno corretti, ma anche figli di una lettura analitica approssimativa e pigra, ciò che resta di Les derniers parisiens è il vitalissimo, umano, commovente, con il quale i due registi francesi hanno costruito la storia e i personaggi. Le dinamiche e il plot non brillano per originalità, tanto che la fruizione scatena nella mente dello spettatore un vortice fortissimo di rimandi al cinema di ieri e di oggi, in particolare a tutti quei film in cui fratelli caratterialmente diversi devono arrivare allo scontro per potersi riavvicinare. Il tutto condito da una serie di tematiche come la lotta per la sopravvivenza in un ambiento ostile, il riscatto, il diritto all’indipendenza e il confronto multi-etnico, che sono ormai diventate pane quotidiano sul grande schermo. Da questo punto di vista, la pellicola e il suo script non aggiungono nulla di particolarmente rilevante alle argomentazioni già trattate in centinaia di opere analoghe, ma ciò che emerge con prepotenza è il modo in cui Bourokba e Labitey le hanno fatte proprie, tanto da restituire un qualcosa di assolutamente personale nella quale riflettersi e riconoscersi. E sono gli stessi autori a confermarcelo nelle note di regia: «Volevamo che il film trasmettesse l’urgenza e le insicurezze di cui i nostri personaggi sono preda. L’ambizione era dirigere un film di finzione radicato nella realtà delle sue storie, delle sue location, di generazioni ancora segnate da rischi e tensioni. Plasmare e scrivere questo film ha richiesto un lungo processo di riflessione, ma siamo riusciti a superare gli ostacoli incontrati. Les derniers parisiens è stato girato in fretta, con il dinamismo tipico della nostra identità artistica». Tutto questo si respira chiaramente e si vede sullo schermo con altrettanta chiarezza e immediatezza, anche grazie a uno sguardo acuto sui luoghi e alle performance davanti la macchina da presa dei due protagonisti Reda Kateb e Slimane Dazi.

Francesco Del Grosso

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