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Daguerrotype

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VOTO: 8

Ombre e misteri dal passato

Diversi registi orientali hanno cercato il successo oltre il loro paese d’origine con storie ambientate negli Stati Uniti e con attori americani, ma con alterne fortune. Per esempio il cinese John Woo negli anni Novanta/Duemila ha tentato di esportare la sua folgorante formula action con più pellicole (di cui di sicuro Face Off è la più valida e riuscita) che però obiettivamente non si avvicinano minimamente ai suoi capolavori girati a Hong Kong (A Better Tomorrow, The Killer, Hard Boiled). O ancora più di recente ci hanno provato i sudcoreani Kim Ji-woon con The Stand – L’ultima sfida (2013), prodotto alquanto discutibile, soprattutto se paragonato ai magnifici Bittersweet Life (2005) e I Saw the Devil (2010), e Park Chan-wook con Stoker (2013), forse l’unico che è riuscito a rimanere federe al suo stile unico e riconoscibile mantenendo un alto livello qualitativo. Nel 2016 anche Kiyoshi Kurosawa ha fatto questa scommessa, compiendo una scelta anomala e puntando invece sull’Europa, e più specificamente sulla Francia.
In Daguerrotype ci racconta di un ex fotografo di moda (Olivier Gourmet), ritiratosi a vita privata dopo la morte della moglie, che vive in una villa con la figlia (Constance Rousseau),  costringendola ad estenuanti pose davanti al dagherrotipo. L’arrivo di un nuovo assistente (Tahar Rahim) risveglierà nella casa spettri, passioni, dolori e interessi mai sopiti.
Il dagherrotipo è un apparecchio inventato dal francese Daguerre nel 1839, con il quale si ottiene, per mezzo della luce e di speciali sostanze chimiche, di fermare su lastre argentate le immagini che si formano nella camera oscura. Già di per sé il fatto che sia questo strumento a dare il titolo all’ultima pellicola di Kiyoshi Kurosawa e che ne sia uno dei protagonisti, anche se inanimato, ci fa capire in che tipo di esperienza cinematografica ci stiamo immergendo. Daguerrotype (o Le secret de la chambre noire, cioè Il segreto della camera oscura) è un film quasi fuori dal tempo, un dramma gotico dal ritmo sincopato che richiama chiaramente al passato, con omaggi a Bava e Franju, e che si fonda sulle ossessioni, sul dolore, sulle menzogne e sull’amore. Un film perennemente in bilico tra il dramma, il thriller psicologico e l’horror, in cui i personaggi si muovono nel mondo creato dal prolifico autore giapponese come fossero spettri tristi e tormentati, e pervaso da una costante atmosfera sottilmente angosciante.
La commistione di generi, insieme ad un efficace uso della profondità di campo e del piano sequenza, è una delle caratteristiche principali di Kiyoshi Kurosawa che nella sua trentennale carriera di regista e sceneggiatore ha saputo spaziare con grande efficacia dal thriller avvincente (il folgorante Cure, 1997) all’horror metafisico (il magnifico Kairo, 2001), dalla black comedy (Doppelganger, 2003) al dramma più profondo (Bright Future, 2003 e Tokyo Sonata, 2008, solo per citare un paio di esempi). Ma ogni suo film in realtà non è facilmente riconducibile ad un genere unico e preciso, il suo è un cinema complesso e stratificato, pregno di sottili significati secondari e simbolismi, eppure così lineare e diretto, ma mai urlato, mai esagerato; infatti in ogni sua pellicola riescono perfettamente ad amalgamarsi e a fondersi più generi diversi senza inficiarne minimamente la forza e l’impatto emotivo.
In Daguerrotype, presentato in anteprima al Toronto International Film Festival e poi passato anche al recente Torino Film Festival, i personaggi si muovono in un universo narrativo confuso, con più sottotrame intriganti e diversificate, che lentamente avvolgono la storia in un mistero sempre più fitto e rarefatto, in cui è difficile districarsi e scindere la realtà dalla fantasia. Tahar Rahim (indimenticato protagonista dello splendido Il profeta di Jacques Audiard, del 2009) interpreta Jean e incarna magnificamente l’innocenza e l’incertezza di un uomo alla ricerca di una nuova vita professionale che casualmente si imbatte nell’amore per Marie (la bella ed eterea Constance Rousseau); verrà travolto suo malgrado dall’enigma che circonda lei e il suo malinconico padre Stephane (impersonato dal veterano attore belga Olivier Gourmet), che vive nel ricordo della moglie morta in circostanze misteriose, e che forse non lo ha mai veramente lasciato.
L’ambientazione nell’antica villa di famiglia, piena di ricordi, intrisa di arte e in mezzo alla natura, gioca poi decisamente un ruolo fondamentale nella suggestione ansiogena della storia e delle sue impreviste ramificazioni. La regia raffinata e sicura di Kurosawa (anche co-sceneggiatore insieme a Eléonore Mamhoudian), la fotografia elegante curata da Alexis Kavyrchine e il suadente contorno musicale di Grégoire Hetzel con assoli di arpa e violino rendono inoltre questa pellicola tecnicamente impeccabile.
In definitiva quindi, la scommessa del grande autore nipponico di girare il suo primo film al di fuori del Giappone, in francese, ambientato in Francia e con attori francofoni, si rivela vincente e ne conferma a chiare lettere il rimarchevole talento, riuscendo a mantenere intatti le sue tematiche e il suo stile particolare.

Ilaria Dall’Ara

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