Andata senza ritorno
«Il vento fa il suo giro» recita un antico proverbio occitano per dire che alla fine tutto prima o poi ritorna, lo stesso chiamato in causa da Giorgio Diritti per il titolo del suo pluripremiato esordio del 2005. Lo stesso che adesso prendiamo in prestito noi per delineare le traiettorie di un doppio ritorno, quello di un film firmato Taviani alla Berlinale e delle ceneri di Luigi Pirandello nella sua terra natia. Entrambi sono il motore portante e il cuore pulsante di Leonora addio, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Paolo Taviani, da lui scritta, diretta e accompagnata in concorso alla 72esima edizione della kermesse tedesca, poco prima dell’uscita nelle sale nostrane con 01 Distribution il 17 febbraio.
Quella in questione segna la quarta volta a Berlino, la prima senza il compianto Vittorio, dopo San Michele aveva un gallo, La masseria delle allodole e Cesare deve morire, con quest’ultima che si chiuse con la vittoria nel 2012 dell’Orso d’Oro. Da allora di acqua ne è passata molta sotto i ponti, con altre due pellicole realizzate dai due cineasti toscani (Maraviglioso Boccaccio e Una questione privata) e la scomparsa del fratello maggiore nel 2018. Leonora addio arriva tre anni dopo il triste annuncio, con il solo Paolo al timone di un’opera nella quale si avverte comunque il respiro cinematografico e la presenza di Vittorio, al quale il film non poteva che essere dedicato e che si fa testimone di un percorso artistico (e non solo) compiuto in coppia per sessant’anni. Un film che ha permesso a(i) Taviani di attingere nuovamente dalla grande letteratura, della quale la loro produzione non ha mai voluto e saputo fare a meno. In questo caso quella pirandelliana, con la quale le strade si erano già incontrate precedentemente in Kaos (1984) e Tu ridi (1998), entrambi tratti dalla celebre raccolta del 1922. La stessa dalla quale il regista di San Miniato ha preso in prestito il titolo, facendo riferimento ad una novella omonima in essa inserita ma scritta dal drammaturgo siciliano nel 1910. Novella della quale però non vi è traccia nel plot della pellicola di turno, che si concentra invece su altro, narrando in due parti ben distinte per contenuto e forma, da prima la rocambolesca e paradossale avventura delle ceneri del grande scrittore, poi un fatto di cronaca che lui stesso restituì nel suo ultimo racconto venti giorni prima di morire dal titolo Il chiodo, .
Leonora addio si divide in due episodi che si cedono il testimone sul grande schermo, occupando ciascuna un’equa porzione della timeline a disposizione. Al bianco e nero, affidato alla fotografia di Paolo Carnera, spetta il compito di restituire con rigore e geometrie il prima e soprattutto il dopo dipartita di Pirandello. Qui, Paolo Taviani affonda le mani nella storia e nella biografia, rievocando l’odissea che l’urna contenente le ceneri ha dovuto affrontare da Roma ad Agrigento, nel 1947, fino alla sepoltura avvenuta 15 anni dopo in una scultura di pietra. Ne viene fuori un viaggio al limite del surreale con un bravissimo Fabrizio Ferracane nei panni di un delegato comunale girgentino incaricato del “delicato” trasporto.
A sepoltura avvenuta il segmento biografico lascia il posto all’Arte e all’ultima testimonianza donata dal Pirandello scrittore all’umanità. Un passaggio che avviene attraverso un pugno di cenere disperso nel mare siculo e l’irrompere della cinepresa a mano e della tavolozza dei colori caldi sullo schermo, quelli utilizzati da Simone Zampagni per fotografare il secondo capitolo. Qui lo stile del mostrare cambia e si entra in una dimensione letteraria, seppur tratta da una vicenda realmente accaduta giunta alle orecchie del drammaturgo, da lui tradotta in una novella, quella di un ragazzino strappato dalla sua Sicilia che a Brooklyn compirà un gesto tragico e insensato.
In Leonora addio si intrecciano due modi antitetici di fare cinema, ma non per questo incapaci di coesistere, con un approccio meta-teatrale nella recitazione e nella messinscena che fa da collante, alla pari delle note avvolgenti di Nicola Piovani e dall’uso dei materiali di repertorio e frammenti di film del passato: da Paisà a Il bandito, passando per L’avventura, Estate violenta e il già citato Kaos dei Taviani stessi. Il risultato lo dimostra, al netto di qualche passaggio a vuoto dovuto al ritmo espanso, che non riesce però ad oscurare la straripante creatività e libertà registica, i lampi di poesia che entrano a gamba tesa e i perfetti cambi di registro tra il grottesco e il dramma, come avviene ad esempio nella bellissima scena della processione.
Francesco Del Grosso