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La verità sta in cielo

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VOTO: 5.5

All’ombra del Vaticano

Ha senso realizzare oggi un film incentrato su una, tanto misteriosa quanto dolorosa, vicenda accaduta oltre trent’anni fa? Ovviamente la risposta non può che essere affermativa, come per tutte le opere cinematografiche che cercano disperatamente un modo di tenere viva la memoria (anche) delle nuove generazioni su fatti che dovrebbero innanzitutto far riflettere. A maggior ragione quando appaiono seppelliti sia dal tempo passato che, soprattutto, dall’irriducibile ostracismo delle varie parti in causa nello stendere un velo di omertà su ciò che è realmente accaduto. E Roberto Faenza, regista e sceneggiatore de La verità sta in cielo, si riferisce senza mezzi termini al rapimento di Emanuela Orlandi, avvenuto il 22 giugno del lontano 1983. Perché un’adolescente appena quindicenne, figlia di un dipendente del Vaticano, sparisce improvvisamente senza lasciare traccia? Nella sua ultima fatica Faenza ha il grande merito di non tirarsi indietro nel puntare il dito accusatorio verso i poteri forti in Vaticano, esplicitamente accusati sia di collusione nell’episodio criminoso che di una insostenibile corruzione nella gestione del flusso di denaro – perlopiù sporco – transitante nelle accoglienti casse dello I.O.R. (Istituto per le Opere di Religione), sorta di filiale bancaria della Santa Sede per lungo tempo governata senza pudori dal tristemente noto arcivescovo statunitense Paul Marcinkus. Infatti, sotto quest’aspetto, La verità sta in cielo dimostra una notevole professionalità nell’elencare con accuratezza ogni particolare di una vicenda destinata inevitabilmente a svelare trame vergognose sull’asse Italia/Vaticano. Un’opera, insomma, animato da quel nobile afflato civile di cui si sta perdendo lo stampo in questi nostri tempi in cui ogni notizia è destinata ad essere appresa, rigettata e dimenticata nell’arco di pochi giorni se non ore.
Una volta appurato ciò dispiace in misura ancora maggiore, come purtroppo spesso accaduto con il cinema di Faenza, nutrire delle non trascurabili riserve sulla messa in scena di quello che appare come una sorta di film-inchiesta di stampo televisivo, incapace di dare una dimensione autenticamente cinematografica a fatti e nomi snocciolati con dovizia ma anche abbastanza risaputi per coloro che continuano a seguire un terribile fatto che, nella realtà, viene periodicamente sin troppo aggiornato da particolari inediti. Non che dal modus operandi di Faenza, da sempre sin troppo “illustrativo” e perciò molto più a proprio agio nella trasposizione di testi preesistenti, ci si potesse aspettare uno sperimentalismo da teatro dell’assurdo al pari di quello operato da Sabina Guzzanti nel suo, ottimo, La trattativa (2014). Nemmeno però un lungometraggio che sembra un presepe piuttosto inerte di personaggi autenticamente esistiti ed ancora in vita – Sabrina Minardi, motore narrativo del film, sentimentalmente legata ad Enrico De Pedis detto Renatino, leader della famigerata “Banda della Magliana” – mescolati ad altri di pura invenzione per l’occasione. A latitare è dunque il pathos spettatoriale nei confronti di una vicenda che avrebbe avuto le carte in regola per appassionare se solamente si fosse scelta una prospettiva di narrazione un minimo decentrata, magari innervata da una messa in scena maggiormente propensa all’originalità. Ne La verità sta in cielo persino attrici di provata bravura e sensibilità come Maya Sansa – la quale nel film interpreta la parte di una giornalista italiana che lavora Londra per un canale televisivo britannico, tornata in Italia per un’inchiesta sul caso – si mostrano spaesate poiché del tutto prive di una qualsiasi verosimiglianza del personaggio. Medesimo discorso per Riccardo Scamarcio (De Pedis), che pare nell’occasione effettuare più di un passo indietro verso i ruoli di belloccio senz’anima di inizio carriera; mentre di vero e proprio errore cinematografico si può parlare a proposito della giovane e brava Greta Scarano, la quale nella parte di Sabrina Minardi è costretta a recitare metà film truccata da sessantenne, risultando invero molto poco credibile.
Non resta dunque che annoverare La verità sta in cielo – sostituite, nella sarcastica, amarissima ironia del titolo, il “sinonimo” Vaticano all’ultima parola e avrete le non imprevedibili conclusioni a cui giunge Faenza al termine del suo film – tra le occasioni mancate di buon cinema, forse addirittura penalizzate da un eccesso di zelo cronachistico. Talvolta, si sa, per rendere più interessante una triste vicenda sin troppo popolare e dunque rimasticata, bisognerebbe possedere la forza di distaccarsene quanto basta.

Daniele De Angelis

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