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Kingsman: Il Cerchio d’Oro

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VOTO: 8

I sequel definiscono una saga

Kingsman: Il Cerchio d’Oro è un sequel che vale più di mille conferme. Per fortuna, ogni tanto, capita anche questo. Non era facile, almeno in teoria, raggiungere i risultati del predecessore, quel Kingsman – Secret Service che al tempo (2014) fece quasi gridare al miracolo per la verve irresistibile con la quale incrociava fumetto. spy story e molto altro ancora. Ebbene Matthew Vaughn e la sua sodale in sede di sceneggiatura Jane Goldman lo hanno fatto di nuovo; e il popolo dei fan non può che essergli infinitamente grato per le due ore e passa che scorrono lisce come l’olio all’insegna della più alta forma d’intrattenimento conosciuta: quella baciata dall’intelligenza e dal senso del ritmo. Sarebbe infatti reato ai limiti del penale, oltre che compiere esercizio di cattiva critica, fermarsi unicamente all’aspetto ludico del film in questione, fattore che peraltro sarebbe già ampiamente sufficiente per un giudizio positivo. In Kingsman: Il Cerchio d’Oro, come del resto nel lungometraggio primigenio, sono presenti tante altre chiavi di lettura rispetto alla riproposizione del consueto canovaccio narrativo che vede il mondo minacciato dal villain di turno – espediente attivo sin dagli albori dell’infinita saga degli 007, ad esempio – per l’occasione affidato ad una vellutata, tanto suadente quanto letale, Julianne Moore, abituata a fare polpette (letteralmente) dei propri nemici. Senza aver alcuna intenzione di svelare le mille e più sorprese appartenenti ad un oggetto cinematografico capace di donare il medesimo stupore, infantile eppure consapevole (i due significati ossimorici, altro piccolo miracolo della banda Vaughn, nell’occasione viaggiano perfettamente all’unisono), di un’escursione in un parco-divertimenti dove ogni cosa può accadere, è possibile affermare con chiarezza che Kingsman: Il Cerchio d’Oro è anche un’opera finemente politica. Il cinema da botteghino, statunitense e non solo, ha metabolizzato l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti e sta cominciando a sviluppare gli anticorpi. Evviva! Perché già sappiamo cosa successe nel periodo dei vari Reagan o Bush junior e, scorazzando tra i vari generi, siamo certi che ci sarà da divertirsi. Almeno finché la realtà della condotta trumpiana lo consentirà. In un film che fa della satira più o meno occulta – fino ad un certo punto: quelle immaginifiche piramidi di gabbie umane mostrate nel film suonano sinistramente verosimili, nel presente – uno dei suoi punti di forza, c’è un Presidente U.S.A. assai vicino all’originale dal punto di vista ideologico. E se la Settima Arte è ancora il regno dell’utopia diviene perfettamente lecito sperare che quanto accada al Master in Chief nella finzione si concretizzi anche nel mondo reale.
Per il resto Kingsman: Il Cerchio d’Oro è anche una sorta di party a porte aperte, un film di arrivi e ritorni. Un infinito crocevia in cui ogni star – solo per citarne alcune: Channing Tatum, Jeff Bridges, Halle Berry, Emily Watson e, occhio al suo personaggio, Pedro Pascal, oltre ovviamente ai nomi presenti già nel primo film – ha il proprio spazio vitale nell’economia narrativa. La sola partecipazione straordinaria, ad esempio, di un Elton John nei panni di se stesso, raccontato ai trecentosessanta gradi della propria iconicità, varrebbe di per sé il prezzo del biglietto per la visione, se non addirittura una maggiorazione dello stesso. Per tacere di una regia che fa del virtuosismo d’azione una forma di poesia, nonché la consueta colonna sonora strappa applausi per il modo in cui si congiunge all’immagine. Inoltre: Eggsy (sempre interpretato dall’ottimo Taron Egerton) il giovincello baldanzoso del primo film acquisisce coscienza del suo status di Kingsman, un po’ come il film che si sovrappone idealmente al suo protagonista; mentre ogni situazione in apparenza simile a quelle del primo capitolo – del quale è altamente consigliabile un ripasso, prima della visione del secondo – presenta invece un proprio grado di lettura speculare ed autonomo nel rovesciamento, dunque in grado di mantenere il “gioco” sempre originale e affatto sterile, di conseguenza straordinariamente piacevole. Se per alcuni critici “altolocati” il fatto di andare incontro ai gusti di un pubblico peraltro giocoforza attento a cogliere il raffinato gioco di referenzialità sia con l’universo filmico del lungometraggio che con quello della realtà, rappresenta una sorta di peccato originale, non resta davvero altro che addentare con gusto la mela da un Eden costituito dal cinema di Matthew Vaughn. Il quale ha ormai definitivamente affrancato il franchise cinematografico dal fumetto ispiratore di Mark Millar e Dave Gibbons per farlo brillare di luce propria.
Concludendo: l’unica soluzione possibile è quella di correre in sala e dare inizio alle danze. Con la certezza che, soprattutto considerando l’epilogo, il godimento non si fermerà a questo secondo capitolo.

Daniele De Angelis

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