La curiosità è il mio minimo comune denominatore
La 17esima edizione del Sa.Fi.Ter. ci ha dato la possibilità di incontrare e dialogare con una serie di prestigiosi ospiti, tra cui il produttore e regista Claudio Bonivento, intervenuto nel corso della prima tappa della kermesse pugliese in quel di San Severo per accompagnare la proiezione della sua ultima fatica dietro la macchina da presa, ossia A mano disarmata. Ed è da lì che è iniziata la una one to one nella quale abbiamo potuto ripercorrere alcuni highlights della sua lunga e significativa carriera.
D: Hai dichiarato che A mano disarmata è un film fatto da tre donne; allora viene da chiedere quale è stato il contributo di Claudio Bonivento?
Claudio Bonivento: Quello di avere scelto le tre donne [sorridendo]. Tra l’altro per me che ho sempre fatto film su uomini, tanto da essere persino accusato spesso e volentieri di misoginia, ha rappresentato un progetto molto importante. Ma questo è un film nato da una donna, perché le vicende di Federica Angeli si conoscono e sono sotto gli occhi di tutti, ossia quelle di una giornalista quarantenne che ha visto quello che è stato poi mostrato nella pellicola e che per prima ha deciso di denunciare. E nel farlo ha dovuto scontrarsi contro tutto e tutti, compreso il marito che non era d’accordo di certo non per vigliaccheria, ma per difendere la sua famiglia in previsione di quello che sarebbe potuto accadere. Poi c’è chi l’ha interpretata sul grande schermo, vale a dire Claudia Gerini, che tra l’altro laddove la vicenda era ambientata, ossia Ostia, aveva vissuto sino ai 15 anni. In più assomiglia alla Angeli da un punto di vista del genotipo, perché è bionda e alta. E infine la terza donna che è Domitilla Shaula Di Pietro, colei che ha scritto la sceneggiatura. E c’è stata anche una corrispondenza in termini di scambio di esperienze: la scrittura in questo caso appartiene alla sceneggiatrice, gli umori e le sensazioni all’attrice protagonista e la verità di quello che si sta raccontando a colei che ha ispirato la storia. Per quanto mi riguarda ho spostato la macchina da presa, come mi era successo un’altra volta per il film tv Vi perdono ma inginocchiatevi, per raccontare quello che la gente non ha mai visto nelle inchieste che la Angeli ha realizzato o non ha letto nei suoi articoli. Ho focalizzato l’attenzione sulla componente familiare e sul suo quotidiano, che è quello di una donna sotto scorta, che il pubblico non sa veramente quanto difficile e invasivo vivere in quella condizione. Una condizione, questa, che da produttore avevo affrontato con il film La scorta di Ricky Tognazzi. Anche lì si andava a vedere cosa accadeva nella vita dei protagonisti. Questo per dire che alle volte ci sono storie forti nell’assunto ma che quando le vai a raccontare appaiono ripetitive e prevedibili. Di conseguenza, se ne vuoi fare un film bisogna trovare una chiave altra per evitare che risultino tali. Altrimenti basta farne un documentario o uno speciale. In A mano disarmata ho provato a mostrare il rovescio della medaglia, puntando la cinepresa su quegli aspetti che solitamente vengono messi in secondo piano a favore della cronaca più o meno fedele dei fatti.
D: Nella tua carriera da regista e da produttore hai spesso raccontato storie vere e personaggi realmente esistiti; come sei riuscito a umanizzarli e a non mitizzarli?
Claudio Bonivento: Ho sempre incontrato personaggi che nella loro esistenza quotidiana si sono trovati in situazioni dove non c’era bisogno di ergersi sul piedistallo. Dunque, non c’è stato bisogno di eroicizzarli perché erano già con i piedi ampiamente saldi al terreno e l’importanza delle loro azioni erano alla portata di tutti. Io li ho conosciuti così e così lì ho riportati sullo schermo. E quelli che non ho potuto conoscere perché non erano più in vita ho cercato di raccontarli con il medesimo approccio. Faccio l’esempio de L’attentatuni, la miniserie televisiva che ho realizzato dall’omonimo romanzo-inchiesta di Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri, che ricostruisce l’’operato della DIA dopo l’attentato a Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta. La sera che andò in onda la prima puntata suonò il telefono di casa e dall’altra parte della cornetta c’era la voce di Maria Falcone. Mi si gelò il sangue al solo pensiero di avere fatto qualcosa che in qualche modo avesse ferito la memoria di suo fratello, ma non fu così. Mi aveva chiamato per dirmi che tra le tante cose che aveva visto sull’argomento, L’attentatuni era quella che meglio aveva restituito il significato del sacrificio di del fratello e di sua cognata. A quel punto anche gli ottimi ascolti registrati passarono in secondo piano per fare spazio all’emozione e alla soddisfazione che mi avevano dato quelle parole.
D: Quanto è importante per te la verità in ciò che racconti e se c’è spazio per l’immaginazione nel tuo cinema?
Claudio Bonivento: Certe storie non hanno bisogno di prosopopea, perché sono già forti da sole. Non occorre inventare nulla. Alle volte vedo film su grandi personaggi dove gli sceneggiatori inventano episodi o figure che non sono esistite per giustificare snodi narrativi o chissà che altro. È una cosa che davvero non capisco. Quando hai a disposizione personaggi di tale statura che bisogno c’è di inventare, visto che hanno delle vite talmente importanti e ricche di avvenimenti che da sole sono sufficienti a riempire pagine e pagine. Romanzare non significa falsificare, ma raccontare qualcosa cercando di conservane intatta la veridicità. Per me il liberamente ispirato non esiste ed è molto equivoco, esiste piuttosto il liberamente scritto che è un’altra cosa. Lo spettacolo ha le sue esigenze e le sue caratteristiche, per cui vanno assecondate, ma sempre rispettando l’essenza di ciò che si va a raccontare.
D: Cosa hai portato con te nel tuo mestiere di produttore e regista delle precedenti esperienze nel campo della discografia e dell’editoria?
Claudio Bonivento: In tutte le cose che ho combinato nella mia esistenza, compreso nel mondo della musica e del giornalismo, ho avuto la fortuna e il privilegio di lavorare con grandi personaggi: da Charles Aznavour a Léo Ferré, da Domenico Modugno a Indro Montanelli, passando per Lucio Battisti e Mogol, solo per fare qualche nome. Ma a muovermi è stata sempre la curiosità, il volerne sapere di più e la conoscenza. Questo mix è il minimo comune denominatore nella mia carriera. Leggo, mi documento e vado a scavare, ma senza rompere mai le scatole a nessuno. È la mia natura e ho sempre voluto sapere di più. Anche il cinema e la televisione mi hanno dato e continuano a darmi la possibilità di coltivare e nutrire questa curiosità. Si tratta di un mestiere che ti offre la possibilità di incontrare gente e andare in posti che altrimenti non avresti mai incrociato e visitato per poi scoprire cose in grado arricchirti umanamente e da un punto di vista intellettivo.
D: Quando ti capita tra le mani una sceneggiatura, in base a cosa scegli se dirigere tu il film o affidarlo a un’altra persona, vestendo così il ruolo di produttore?
Claudio Bonivento: Ti rispondo con un esempio. All’epoca di Ultrà, quindi sto parlando del 1991, decisi di affidare la regia di un film così complesso a Ricky Tognazzi. Lui era titubante e non si sentiva pronto, ma per me aveva tutte le carte in regola per poterlo fare bene e così è stato. Veniva da una pellicola come Piccoli equivoci, dove il grado di difficoltà era sicuramente inferiore, ma aveva dimostrato, nonostante i limiti imposti dalle location, di sapere muovere la macchina da presa e raccontare una storia essenziale in maniera spettacolare e narrativamente efficace. Ero sicuro della mia scelta, gli concessi 24 ore per decidere e per fortuna mi diede retta.
D: Negli ultimi anni c’è stato un sostanziale incremento di attori passati alla regia; per te che di attori e attrici ne hai lanciati molti, il passaggio dietro la macchina da presa è una tappa obbligata nel percorso artistico?
Claudio Bonivento: Assolutamente no. Ci sono casi come quelli di Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman che non hanno funzionato da registi. Non sempre l’esperienza attoriale è sufficiente, vedi Claudio Amendola, al quale ho affidato il primo ruolo vero da protagonista della sua carriera in Soldati – 365 all’alba di Marco Risi. Lui probabilmente non si sentiva pronto per la regia e non a caso ha esordito dietro la macchina da presa dopo i cinquant’anni con La mossa del pinguino. Con quel film ha dimostrato in primis a se stesso di potercela fare e, infatti, poi ha realizzato la sua opera seconda dal titolo Il permesso – 48 ore fuori, che ho prodotto io.
D: Come hai imparato a capire se un progetto può funzionare oppure no?
Claudio Bonivento: Ogni film è storia a sé, perché se ci fosse una ricetta, prima o poi l’avremmo scoperta tutti. Tante volte i film ti riescono come vorresti, tante volte no. Ma questo accade anche ai grandi registi. Ci sono alcuni di loro che certe pellicole non le avrebbero mai volute fare. Capita e fa parte delle regole del “gioco”. L’abilità, la capacità e anche la bravura di un regista sta nel sapersi mettere, un po’ come ho fatto io nel mio piccolo con la Gerini in A mano disarmata, al servizio quando trovi una storia e un interprete che lo richiedono. Penso al Bellocchio de Il traditore, che ha messo la sua regia, il film stesso e tutto quello che ne ha decretato la grandezza, al completo servizio di uno straordinario Pierfrancesco Favino, che si è letteralmente caricato sulle spalle l’opera e un personaggio estremamente complessi.
D: Nel corso della tua lunga carriera, hai mai percepito il pericolo che il mestiere di produttore potesse in qualche modo entrare in conflitto con quello di regista e viceversa? Ti sei mai auto-limitato in tal senso?
Claudio Bonivento: Mai. Piuttosto è stato complementare e ti dirò di più, è stato propedeutico il più delle volte. In A mano disarmata sapevo già cosa avrei montato e cosa no, per cui ho preferito chiedere più tempo per realizzare delle scene invece di buttarne via per cose che non avrei sicuramente utilizzato. L’essere produttore serve a capire anche queste cose, che non significa limitarsi, ma ti serve a livello cognitivo. Nei film di Matteo Garrone, ad esempio, è molto importante il suo apporto dal punto di vista produttivo con la società Archimede. L’avere il controllo gli garantisce una visione completa del prodotto che va a realizzare e del suo futuro percorso.
Francesco Del Grosso