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Skate Kitchen

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VOTO: 6.5

Sfidare se stessi

In determinati casi può essere rischioso innestare materiale di finzione su un corpus cinematografico che avrebbe tutti requisiti per diventare un ottimo documentario. La cineasta californiana Crystal Moselle – classe 1980 e già messasi in luce nel 2015 con The Wolfpack, per l’appunto un documentario di quelli capaci di catturare non poco l’attenzione cinefila – ha provato con Skate Kitchen una soluzione stilistica differente, traducendo in un’opera di finzione il proprio sguardo su un gruppo di ragazze adolescenti amanti dello skateboard, definitesi con il nome che fornisce il titolo al lungometraggio. Il quale risulta certamente degno d’interesse, sebbene non perfettamente a fuoco nel definire le composite personalità delle giovani protagoniste.
Ci troviamo a New York, in una Grande Mela tanto affollata quanto dispersiva. La quasi diciottenne Camille (compirà gli anni nel corso del film), situazione economico-famigliare difficoltosa sulle spalle, soffre di solitudine. L’unico mezzo per affermare se stessa e rapportarsi con gli altri è quella tavola provvista di ruote rispondente al nome di skateboard. Fa pratica in continuazione, cade, si ferisce. Ma non demorde, nonostante la madre ostracizzi, a dir poco, questo sua passione sportiva. Conosce un gruppo di ragazze di varia estrazione sociale ed entra in sintonia con loro. Da questo momento inizia per Camille il classico processo di formazione, quella tappa ineluttabile che la condurrà alla crescita fino allo status di persona adulta. Skate Kitchen intende raccontare esattamente tale fase di passaggio.
Molto interessante quando cattura la vita nel preciso momento in cui accade, secondo un tipico procedimento documentaristico, il film convince meno quando si tratta di esibire la propria natura di opera creata a tavolino, scivolando su alcune banalità più degne di un serial televisivo di qualche decennio addietro rispetto ad un’operazione che avrebbe l’ambizione di fare della spontaneità di personaggi e situazioni il proprio nucleo portante. Tralasciando un doppiaggio italiano che, per forza di cose, appiattisce e di molto l’effetto verità voluto dalla regista, c’è da annoverare tra i possibili difetti una sceneggiatura un po’ stereotipata allorquando affronta le dinamiche sentimentali del gruppo, che appaiono tutte abbastanza superficiali, quando non addirittura pretestuose. Oppure la descrizione della figura della madre di Camille, dapprima infervorata sino a picchiare la figlia in pubblico pur di farla desistere dalla sua volontà di praticare lo skateboard, poi misteriosamente assente per un lungo periodo diegetico dalla scena del film, quindi nuovamente ritrovata nell’epilogo, in una versione “materna” e comprensiva piuttosto in contrasto rispetto a quanto visto sino a qualche frangente narrativo addietro.
Resta – e non è poco – la bellezza di alcune sequenze che evidenziano senza troppi didascalismi di fondo i momenti cardine del percorso intrapreso da Camille, come ad esempio il primo contatto carnale – peraltro non portato a termine per motivi che colpiscono in positivo – con il personaggio interpretato da Jaden Smith (sì, proprio il figlio di Will), comunque destinato a rimanere ai margini della narrazione forse in maniera persino eccessiva. Crystal Moselle cerca un cinema iniziatico alla Gus Van Sant o Richard Linklater e in alcuni momenti, permeati di quella magia che solamente la vita vissuta è in grado di donare, lo trova anche. Dispiace perciò sottolineare una volta di più come l’asprezza del paradosso di cui sopra tra cinema del reale e cinema di finzione funga da zavorra non indifferente nei confronti di un’opera che non riesce a raggiungere i traguardi prefissati. Nonostante gli intenti ambiziosi.

Daniele De Angelis

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