Piccola vecchia Roma
Come prevedibile il francesismo cinematografico alla Arnaud Desplechin non va oltre il titolo. Questo perché ne Gli anni più belli il tocco di Gabriele Muccino risulta davvero inconfondibile. E incontestabile appare il suo continuo desiderio di misurarsi con modelli alti del cinema italiano, facendo della coralità del racconto un tramite per raccontare una generazione in continuo cambiamento sullo sfondo dei maggiori eventi italiani ed internazionali, utilizzati solo come punteggiatura atta a scandire lo scorrere del tempo. Dopo il penultimo A casa tutti bene (2018), riunione tra “parenti serpenti” nel quale era possibile rintracciare qualche briciola di cattiveria alla Monicelli, sia pur declinata nel consueto Muccino’s way, ne Gli anni più belli è il cinema di Ettore Scola ad essere messo sotto la lente deformante del regista romano, segnatamente l’epocale C’eravamo tanto amati (1974), in una vicenda che vede tre amici maschi attraversare più o meno quattro decadi temporali, dal 1980 in poi, con una donna a fare da quarto incomodo ma anche soggetto/oggetto destabilizzante nei rispettivi rapporti.
Non si scopre certo l’acqua calda quando si afferma che il cinema di Gabriele Muccino è sempre profondamente divisivo, aspetto che alla fine appare del tutto calzante in un paese quale l’Italia, in eterno condannato ad una contesa tra simbolici Guelfi e Ghibellini. Alcuni, tra pubblico e addetti ai lavori, de Gli anni più belli apprezzeranno l’inarrestabile flusso esistenziale, quella tipica energia mucciniana che riesce a concentrare una saga da serial televisivo in un lungometraggio di due ore senza alcun dubbio commestibile per le grandi platee; gli altri non possono che sottolineare l’ipercitazionismo inconsulto (oltre al capolavoro di Scola, pare che l’antico Birdy – Le ali della libertà (1984) di Alan Parker sia rimasto nel cuore di Muccino, con scopiazzature al limite del plagio in riferimento al personaggio di Paolo, interpretato da Kim Rossi Stuart nella versione adulta) nonché la consueta leggerezza modello “elefante in cristalleria” nel descrivere protagonisti e situazioni narrative. Ciò premesso bisogna ammettere che Gli anni più belli rappresenta un purissimo distillato di cinema mucciniano, tipicamente improntato a quella forma isterica di messa in scena che pare suscitare più di un apprezzamento anche nella critica più edotta. Scontato dunque rimarcare come ogni membro del cast sia costretto ad un overacting che, a tali livelli, non si “ammirava” dai gloriosi tempi di Baciami ancora (2010). Scadendo, anche per questo, abbastanza spesso nel comico non troppo volontario. Qualcuno, come Pierfrancesco Favino e in parte Claudio Santamaria, si salva con il mestiere. Il resto del cast, Micaela Ramazzotti in primis, dà vita ad una performance recitativa del tutto incongrua rispetto alle proprie, già non particolarmente eccelse, possibilità.
Sarebbe forse il caso di soffermarsi un attimo proprio sul personaggio di Gemma (Ramazzotti, appunto). Simbolo palese di una misoginia strisciante che attraversa quest’ultima fatica di Muccino e non solo. Una donna che “la dà via come una fionda“, secondo la poco cavalleresca (eufemismo…) definizione di Paolo nel corso del film. Ecco. Nel solito, vertiginoso, tripudio di tradimenti, corruzioni assortite, scomparse precoci, ideali bruciati e via discorrendo in assoluto più adeguato ad una soap opera innalzata al cubo che ad un affresco generazionale, ciò che maggiormente inquieta è la differenza evidente tra le corna maschili e quelle femminili. Nel primo caso, con riferimento al personaggio di Giulio/Favino, sembra un atto quasi dovuto, scontato nel proprio legittimo desiderio di trovare nuovi stimoli. Per Gemma/Ramazzotti invece è tutto connaturato, come se la fame di altri partner sentimentali e sessuali facesse inevitabile parte del dna femminile. Se il cinema di Muccino, a dare ragione agli adepti, rispecchiasse in pieno la vita, allora ci sarebbe davvero di cui preoccuparsi. Soprattutto per l’estrema e moralistica superficialità con cui viene descritto il micro-universo nel quale si muovono tutti i personaggi de Gli anni più belli. I quali saranno destinati ad incontrarsi sempre e comunque in maniera continua, nel corso della diegesi, come se la Capitale fosse un paesino di poche centinaia di abitanti.
Ad ogni modo c’è da consolarsi. Un’amicizia, a dispetto delle innumerevoli intemperie alle quali si va inesorabilmente incontro nella vita, è per sempre. Non è uno spot pubblicitario tipo pubblicità progresso, bensì il messaggio propugnato dall’ultimo sforzo cinematografico di Gabriele Muccino. Non resta allora che pagare il biglietto e godersi, in un senso o nell’altro, l’iperbolico spettacolo.
Daniele De Angelis